mercoledì 4 luglio 2012
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​È considerato uno degli epigoni di quei nouveaux philosophes che sconvolsero il panorama intellettuale francese (e non solo) negli anni Settanta. Reduce dal marxismo, Philippe Némo è oggi docente alla business school ESCP Europe, dove dirige il settore umanistico nella sede di Parigi. Nel suo ultimo libro uscito in Francia, La belle mort de l’athéisme moderne (Puf), l’ex allievo di Emmanuel Lévinas (oggi credente) indaga le ragioni per cui la negazione di Dio non è più così trendy come si pensava un tempo. E come mai «la voce del cristianesimo può di nuovo farsi ascoltare. Il cristianesimo torna ad essere la grande posta in gioco intellettuale della nostra epoca».Professor Némo, il filosofo Maurice Clavel, da lei citato, affermava che gli ultimi 2 secoli sono stati "sotto il segno di Lucifero" perché hanno voluto respingere l’idea di Dio. Fabrice Hadjadj, nel suo "La fede dei demoni", ricorda che il diavolo non è ateo. Non credere è "affare diabolico"?«Non penso che non credere sia una colpa. È solo una sfortuna, perché impedisce di capire la vera dignità dell’uomo. Colui che non ha un senso della trascendenza conduce una vita priva di senso e che non viene orientata da nessuna speranza. È comunque vero che forse il diavolo gioca un ruolo nell’orchestrare i grandi movimenti ideologici che impediscono agli uomini la fede: essi così non hanno i modi per riflettere su se stessi e non possono difendersi contro la propaganda».Perché lei sostiene che l’ateismo è morto? Con i nuovi atei - vedi i vari Dawkins, Dennett e Onfray - l’ateismo sembra aver oggi un soprassalto intellettuale …«Gli argomenti evoluzionisti di Dawkins possono turbare solo quanti son stati formati a credere alla verità letterale della Bibbia. Questo è un problema all’interno della cultura anglo-sassone. Dennett critica la fede con argomenti ispirati dalla scienza positivista. Ma la vera fede cristiana non ha in verità alcun contrasto con la scienza, come ha mostrato Pascal, perché queste due dimensioni non appartengono al medesimo ordine di cose. Dennett dunque si pone al margine delle questioni vere. Quanto a Onfray: io non concedo il minimo valore intellettuale ai suoi scritti. Del resto questi tre autori non sono dei filosofi, non li possiamo mettere sullo stesso piano di pensatori come Nietzsche, Marx o Heidegger». Lei ha parole molto dure sul "negazionismo" verso le radici giudeo-cristiane dell’Europa. A suo avviso, tale negazione è accostabile a quella della Shoà. Non le pare un’esagerazione?«Nel brano cui lei si riferisce io ho comunque sottolineato l’evidente differenza di gravità e di livello tra i due fenomeni. Ciononostante, vi è una vera analogia. Nella negazione dell’Olocausto si trova un antisemitismo implicito perché negare la specificità di questo evento porta a negare l’identità del popolo ebraico. Allo stesso modo coloro che hanno voluto ritirare dal preambolo del Trattato dell’Unione europea ogni citazione delle radici cristiane dell’Europa non commettono solo un grossolano errore storico. Essi vogliono anche imporre una certa visione dell’Europa, cambiare l’identità profonda degli europei e, in fin dei conti, tagliar fuori e marginalizzare i cristiani. Questa manifestazione di odio indistinto verso l’insieme di una collettività assomiglia, dunque, in qualche maniera, all’antisemitismo». Lei scrive che "l’ateismo è anche il frutto di ricerche intellettuali sincere". Quali?«Penso a Nietzsche e Marx. Ma anche al positivismo scientista. Molti uomini del XIX secolo hanno pensato che la scienza e la tecnica moderne potevano rimediare alle miserie dell’umanità. E avevano paura che il dogmatismo di un certo cristianesimo tradizionalista potesse frenare i progressi della scienza. Hanno dunque creduto che bisognasse erigere una concezione del mondo e dell’uomo eliminando l’ipotesi religiosa. Questo fu sicuramente un itinerario intellettuale sincero. Ma dopo aver avuto a disposizione diversi decenni per svilupparsi e giungere ad una maturità, tale percorso non è pervenuto a nulla».
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