martedì 16 gennaio 2018
«Capro espiatorio», «figliol prodigo», «seminare zizzania» sono espressioni ecclesiali entrate nella lingua comune. Parla la linguista Rita Librandi
Da «lavabo» a «pilatesco»: così la Chiesa ha arricchito l'italiano
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Se oggi un politico può essere definito un “sepolcro imbiancato” da qualcuno che lo taccia di ipocrisia oppure se può essere chiamato un “giuda” perché magari ha tradito il suo partito, lo dobbiamo alla lingua della Chiesa. Se un parlamentare che ritorna nel raggruppamento in cui è stato eletto può essere apostrofato come “figliol prodigo” oppure un sindacalista che vuol rovesciare il tavolo di una trattativa viene descritto come colui che “semina zizzania”, lo dobbiamo al vocabolario evangelico. Se in televisione Il grande fratello, reality emblema della volgarità, ha il suo “confessionale” oppure è possibile parlare di “via crucis” per un lavoratore che attende l’agognata assunzione, è merito dell’italiano ecclesiastico. Che ci ha regalato anche l’espressione “mea culpa”, cara a chi riconosce i propri errori persino in pubblico, oppure la locuzione altrettanto familiare “Deo gratias” che spesso viene usata in modo per lo più sarcastico quando si è finalmente concluso un incontro noioso o è giunto il ritardatario di turno.


«La lingua della comunità cristiana non soltanto ha arricchito l’italiano, ma l’ha talmente plasmato che parole risalenti al cristianesimo delle origini o comunque di matrice cattolica sono entrate a far parte del parlato e dello scritto quotidiano e da tempo hanno acquistato un senso traslato fino a diventare metafore di cui magari non si conoscono bene le radici», spiega Rita Librandi, docente di Linguistica italiana e Storia della lingua all’Università “L’Orientale” di Napoli e autrice del libro L’italiano della Chiesa (Carocci; pagine 128; euro 12,00). Subito la studiosa cita un esempio: «La locuzione “capro espiratorio”, utilizzata per indicare chi sconta colpe altrui, è popolare. Eppure soltanto i credenti colti sono ancora in grado di ricondurla al passo dell’Antico Testamento dove si descrive il rito con cui gli ebrei sacrificavano un capro per chiedere perdono dei propri peccati. Infatti, nel Levitico, il sommo sacerdote Aronne sorteggiava tra due capri quello da uccidere per offrirlo in segno di espiazione al Signore e quello da lasciare libero nel deserto».


Se si apre un dizionario e si cerca un termine ecclesiastico, non è raro che venga classificato come vocabolo di settore. «È indubbio che il linguaggio della Chiesa sia di per sé specialistico – afferma Librandi –. Esso ha uno statuto proprio che è legato all’ambito biblico, teologico, spirituale. Le parole della fede possono essere ritenute tecnicismi. Ma hanno una peculiarità: molte rientrano nell’italiano di base, ossia in quel bacino di 6 o 7mila parole che formano il lessico del cittadino medio. Prendiamo il vocabolo “battesimo”. Consultando il Grande Dizionario De Mauro in sei volumi edito da Utet, il lemma è contrassegnato dalla sigla “Ts”, cioè tecnico-specialistico. Ma al tempo stesso appartiene all’italiano di base. Di fatto un termine che ha un significato circoscritto perché rinvia a un sacramento è diventato patrimonio di un’ampissima fetta della popolazione». Così accade che lo si possa impiegare per riferirsi al primo volo in aereo che non a caso è chiamato il “battesimo dell’aria”. «La stessa cosa non è avvenuta e non avviene per i tecnicismi della medicina, della matematica o della finanza», chiarisce la linguista.


Un altro caso di scuola? Pilato. Se nel Nuovo Testamento è giustamente un nome proprio, la lingua di tutti i giorni vuole che “pilato” sia chiunque per vigliaccheria o quieto vivere evita di assumersi le proprie responsabilità. E la sua vitalità lessicale ha prodotto negli ultimi decenni una lunga serie di derivati: da “pilatesco” al neologismo “pilatescamente”, al centro addirittura di una sentenza della Corte di Cassazione nel 2014. Persino la parola “lavabo”, intesa come lavandino, ha genesi religiose: deriva dal futuro latino lavabo («laverò») che si legge in un versetto del Salmo 26 ed era ripetuto dal sacerdote al momento di lavarsi le mani durante la Messa. Che dire poi delle parole conclusive di una celebrazione eucaristica, “La Messa è finita”, trasformate da Nanni Moretti nel titolo di un suo film del 1985. Oppure di “unto del Signore” con cui Silvio Berlusconi si presentò a una convention politica del 1994.


«La pratica religiosa è parte fondamentale della vita degli italiani – osserva la docente –. E anche quando la società si è progressivamente laicizzata, con l’unificazione del Paese e soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, l’educazione religiosa e ancora di più il sentimento cristiano non sono venuti meno. Ecco perché il nostro parlare contempla vocaboli e immagine bibliche nonostante un individuo possa non essere credente». Non è l’unico lascito linguistico della comunità ecclesiale. «Oggi la Chiesa è il principale megafono dell’italiano all’estero – sottolinea Librandi –. Benché resti il latino la sua lingua ufficiale, quella più usata è la nostra. Pensiamo agli interventi in italiano dei Pontefici che hanno un’eco planetaria oppure al fatto che moltissimi sacerdoti, religiosi e religiose dei cinque continenti, impegnati negli studi a Roma, siano tenuti a imparare l’italiano. Questo fa sì che la nostra sia una sorta di lingua veicolare all’interno del mondo ecclesiale».


La Chiesa è anche una straordinaria scuola di “lettere”: dal Verbo ai verbi. «La comunicazione è la parole d’ordine del nostro tempo che ha facilitato la globalizzazione – dice la linguista –. Tuttavia sul fronte della comunicazione nessuno può insegnare alla Chiesa. Anche se parla un linguaggio specialistico, è in grado di spiegare alla gente concetti complessi in modo comprensibile. Lo fa, come testimonia già la Sacra Scrittura, con riferimenti alla vita concreta, con metafore, con similitudini. Anche così il vocabolario ecclesiale si è fatto bagaglio condiviso. Tutto ciò sfata il falso mito di una Chiesa oscurantista, disinteressata alle persone comuni: puntando sulla predicazione e sulla catechesi ha educato anche linguisticamente per secoli gli italiani, ben prima che l’Italia ci fosse in quanto tale». E ancora oggi la Chiesa arricchisce il dizionario collettivo. «Lo dimostra papa Francesco. Alcune sue intuizioni sono diventate espressioni linguistiche in voga: da “Chiesa in uscita” a “cultura dello scarto”, passando per “globalizzazione dell’indifferenza” o “Terza guerra mondiale a pezzi” – conclude la studiosa –. La loro fortuna è connessa principalmente alla cassa di risonanza mediatica che le porta nelle case. Certo, non sappiamo quanto resisteranno nel tempo. Però si sono ritagliate un posto d’onore negli scritti e nelle conversazioni di questi anni».

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