domenica 14 aprile 2024
Il nuovo saggio di Monica Ferrando sul topos letterario della terra idilliaca: sotto il mito della “vita sana” e dell’aria pulita c’è la protervia del sistema che esalta la natura ma non la cura
Tiziano, “Fuga in Egitto” 1509 circa

Tiziano, “Fuga in Egitto” 1509 circa - San Pietroburgo, Ermitage

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Tutto è cominciato molto tempo prima, lo sappiamo già; non in illo tempore, ma in ogni caso in un tempo remoto che pur tuttavia lascia indecise certe questioni. Per esempio, perché Virgilio abbia ambientato le Bucoliche in una terra così poco adatta alla funzione che poi avrà, vedendo trasformato il suo nome persino in utopia: Arcadia, terra del Peloponneso, forse anche un po’ ruvida, ma per il poeta giusta per un mondo di natura rasserenata; un regno di pastori, e di agricoltori, quindi di convivenza animale e di messi per il sostentamento, ma anche alberi, acque e rocce.

Monica Ferrando non si è accomodata in una tradizione. Da ottima filologa qual è – sue, tanto per dare la misura, le due edizioni critiche di un grande filologo classico e studioso dei miti antichi, Hermann Usener, morto agli albori del Novecento: Triade. Saggio di numerologia e I nomi degli dèi (i studiatissimi Götternamen), che farebbero tremare i polsi al più puntiglioso degli eruditi – e da artista e docente in accademia, Ferrando fonde in sé due regioni dell’umano: il sapere classico e l’arte. Ecco che ora ha deciso di entrare nell’impervia terra greca per cercare un bandolo possibile alla matassa arcadica. Che nonostante i recuperi, in particolare nel Rinascimento e ancora nel Barocco, attendeva ancora che qualcuno decidesse di levarle quella patina di serena regione della poesia amorosa, della lirica campestre degli affetti e degli incontri fra uomo e natura nella prospettiva della pastorale celebrazione del mondo femminile. Così Ferrando si è impegnata a fondo nel 2018 per dare alle stampe un corposo studio, di circa seicento pagine, dedicato all’Arcadia come “paradigma politico”.

Il tempo è propizio, se non altro per l’idilliaca restaurazione del credo ambientalista e del rito ecologico. A molti sfugge, forse, che sotto il mito della “vita sana” e dell’aria pulita c’è la protervia del bene tecnologico. E così il tempo propizio da qualche anno accelera e genera mostri, direbbe lo spagnolo Goya, oggi adeguandolo al sogno dei sonnambuli nemici dell’uomo che inquina. Siamo al punto che in Spagna nel 2020 hanno pubblicato un volume a più voci a cura di Fernando Quesada, intitolato Tecnopastoralismo, che propone “ensayos y proyectos en torno a la Arcadia Tecnificada”. E gli autori del libro intendono mostrare che il “tecnopastoralismo” – parola che vorrebbe reagire all’utopia tecnocratica senza rifiutarla, come piaceva ai maestri del Movimento moderno Morris e Le Corbusier e ultimamente a una schiera di architetti americani – è il sistema che esalta la natura come grande madre, costretta talvolta a partorire i frutti incestuosi di una prole che, come non è difficile capire dai segni e dai gesti, non si premura di salvaguardare il corpo della indistruttibile genitrice. Seicento pagine, dunque, dedicate ad Arcadia sotto il titolo Il regno errante, dove tutto è sommovimento, rivolgimento, cambiamento e tutto si lascia correre in una sorta di visione paradisiaca della terra incognita che ha nel sociale e nel politico un orizzonte apparentemente nuovo, ma che non lo è. Mondo abitato da ninfe, pastori, animali e piante, regno idilliaco dove già per il poeta latino lirica e musicalità si incontrano agli effetti balsamici e incantatori della siringa di Pan (il nomos dell’Arcadia, legge «inseparabile dalla musica» scrive Ferrando in alcune sue pagine più recenti). È una sfida che promette singolari sviluppi.

Forse ci siamo convinti che Arcadia sia la terra che può far dimenticare le tragedie e la drammaticità del vivere, d’altra parte ormai così all’ordine del giorno che bisognerebbe possedere la memoria di un pesce, pochi secondi, perché tutto venga presto cancellato. Oggi l’incentivazione adrenalinica dei bioritmi personali ma anche gli appetiti bulimici delle comunità umane indotti dal nomos capitalistico non tollera dinieghi e il politico si riduce a un orizzonte che non può scindersi dall’economico. Arcadia, tutt’al più, diventa pacificazione come consumazione, dispendio che offre una edonistica variante al «piacere catastematico epicureo» – evocato da Ferrando in rapporto a Dante, ricollegando però quella assenza di dolore «alla povertà come somma virtù evangelica» – mentre il rifiuto della sofferenza svirilizzato di ogni etica e tradotto in rifiuto individuale di ogni sacrificio non salva nemmeno il desiderio, prima ancora che la speranza, della coabitazione divina. Questo argomento è una delle questioni affrontate da Monica Ferrando in un nuovo saggio, fresco di stampa per il Mulino, Arcadia sacra (pagine 134, euro 12,00 nella collana “Icone. Pensare per immagini” diretta da Massimo Cacciari) che comincia raccontando l’occasione da cui è partito questo approfondimento del saggio precedente: il grande quadro della Fuga in Egitto del giovane Tiziano, oggi all’Ermitage, dipinto qualche anno dopo l’edizione pubblicata nel 1502 a Venezia da Aldo Manuzio dell’Arcadia di Jacopo Sannazaro, in realtà già prodotta dal grande poeta partenopeo nella versione manoscritta fatta circolare forse già vent’anni prima, con commistioni di vocabolario dialettale che, come nota Ferrando, non ostacolarono le quasi novanta riedizioni prodotte lungo oltre un secolo, fino a inoltrato Seicento. Manuzio stampò una seconda edizione nel 1514, e l’opera, oggi stimata un capolavoro, ebbe notevole incidenza sul contesto veneziano, letterario, ma anche pittorico.

La studiosa inizia raccontando la singolare e inaspettata “stroncatura” del quadro di Tiziano che un dotto architetto qual era Vittorio Gregotti rese pubblica nel 2012 durante una conversazione a Palazzo Mocenigo, quando l’opera dai cieli russi era planata a Venezia, e dopo accurati restauri veniva esposta alle Gallerie dell’Accademia. «Un fallimento!», quell’opera, secondo Gregotti; grande stupore e imbarazzo nella filologa e artista, ben conoscendo la raffinatezza e l’ironia anche nella critica del noto architetto. «Netta fu la sensazione – scrive Ferrando – che l’immagine avesse toccato un nervo scoperto e risvegliato quel conflitto di due mondi, la città e il territorio, tanto ricorrente quanto irrisolto e patente nella storia italiana». È il conflitto che rende quasi un ossimoro l’Arcadia politica di cui si cerca il bandolo. Il dipinto di Tiziano, oltre a essere uno dei quadri più grandi del pittore, presenta appunto una «inedita ampiezza della dimensione paesaggistica» che fa «da sfondo e fondamento alle figure le quali sono state dipinte sopra il paesaggio». Chiamata “Arcadia veneta” «la natura innalza la sua gloria d’alberi anche spogli sopra l’umano che essa accoglie». Se scrivessi di quel bosco funge da fondale, è perché mi verrebbe da associarlo a una scena teatrale en plein air dove Venezia trova il suo mondo pastorale e il mistero sacro nell’accordo fra natura e l’umano.

Un paganesimo che non è soltanto tale, e si potrebbero rievocare il lungo dialogo-scontro e i tentativi di assimilazione col cattolicesimo fin dai primi secoli. Un’Arcadia spirituale e pacificata, o un paradiso, forse non religioso ma immanente regno pastorale di “terra ferma” dove all’opposto sono le acque a fare muro alla difesa della città col mare. Se l’Arcadia dell’attuale tecnopastoralismo non sarà mai terra dell’idillio, ma mezzo di una nuova ecolatria della “vita sana”, mi vengono alla mente invece i pensieri di un compositore e pianista catalano, Federico Mompou, mentre scriveva la suite per pianoforte Musica callada – la “Musica silenziona” che san Giovanni della Croce nel Cantico spirituale dichiara all’Amato «È come notte calma, / molto vicina al sorger dell’aurora, / musica silenziosa, / solitudine sonora, / è cena che ristora e innamora». Qui, naturalmente, c’è il paradosso-ossimoro del silenzio come voce, anzi, la parola del silenzio, che spinge a mettersi in ascolto della propria interiorità. Ed è questa la legge, il nomos, che Sannazaro declina nell’Arcadia – il nomos che Ferrando però pone di contraltare a Carl Schmitt non quale regola del nemico, ma ratio e pace che rende la terra nuovamente spazio abitabile cioè per convivere, e non soltanto tra uomini; legge della Creazione che mira alla redenzione cosmica e, per il cristiano, eterna. E il paradosso della “musica callada”, secondo Mompou, è «musica che non ha né aria né luce, un debole battito del cuore. Non gli si chiede altro che di percorrere un millimetro di spazio», ma è una misura che in realtà occupa uno luogo interiore dove la charis è doppia condizione di dolore privo di confini e irraggiungibile sostanza del divino. Il quadro di Tiziano a suo modo risponde pienamente: la Sacra Famiglia quasi avanza dentro la navicella arborea del paesaggio, preceduta da un angelico giovane senz’ali, come osserva Ferrando, e da un parterre di animali. Tutti in movimento verso dove. Una tale concentrazione di esistenze, che per un attimo mi ha ricordato, sia pure in deserto quaresimale, il Cristo degli animali di Moretto, al Metropolitan di New York, unica tela che si ricordi dove il Cristo parla alle bestie e a nessun altro.

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