mercoledì 28 settembre 2022
La via per uscire dall’afasia escatologica passa attraverso il registro comunicativo della relazione, l’idea che la beatitudine è pienezza di relazioni buone. Dibattito su "Dialoghi"
Il Paradiso in un dipinto di Carlo Saraceni (Venezia, 1579-1620)

Il Paradiso in un dipinto di Carlo Saraceni (Venezia, 1579-1620) - archivio

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Il grande tema della promessa biblica della vita eterna e il suo significato nel mondo contemporaneo è al centro del dossier "Cieli nuovi e terra nuova", curato da Luigi Alici e Francesco Miano, che caratterizza l’ultimo numero di "Dialoghi", il trimestrale culturale dell’Azione cattolica. L’iniziativa propone un forum con Marta Margotti, Francesco Stoppa e Daria Pezzoli-Olgiati intitolato Sulle tracce dell’eschaton e approfondimenti firmati da Carla Danani (L’eterno nel quotidiano), Franco Garelli (I cattolici italiani e la speranza ultraterrena: tra afasia e nostalgia), Giovanni Grandi (Parlare della “vita eterna” tra ricerca della felicità e incentivo al fare), Francesco Russo (Eschaton come evasione o stimolo all’impegno nella storia?). Proponiamo l’approfondimento Il silenzio sui novissimi di Giacomo Canobbio, docente emerito della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e direttore dell’Accademia cattolica di Brescia. Fra gli altri anche interventi di Luigi Ciotti, Brunetto Salvarani e Una Chiesa italiana più snella, intervista al cardinale Matteo Maria Zuppi di Gioele Anni.

Da qualche tempo si sente ripetere che dalla predicazione e dalla catechesi sono quasi scomparsi i novissimi. Chi lo afferma avrà le sue buone ragioni, benché osservando la pubblicistica di questi ultimi anni sembra stia rinascendo l’interesse per questo tema. Certo, le pubblicazioni non dicono ancora che nella comunicazione ai fedeli l’argomento in causa sia tornato attuale. In via indiretta si può avallare l’affermazione della scomparsa: recenti indagini sulla religiosità degli italiani (che quando sono pubblicate, va detto, sono già superate: il vorticoso trapasso di opinioni non permette di identificare i risultati delle indagini con quanto effettivamente le persone pensino) attestano che anche una buona percentuale dei cristiani praticanti e attivi non sarebbe sicura che oltre la morte vi sia un’altra vita. Ciò che crea maggiori difficoltà è la risurrezione dei morti. Minore difficoltà sembra incontrare la sopravvivenza dell’anima (benché su questa le neuroscienze stiano gettando discredito: tutte le funzioni attribuite all’anima sarebbero effetto di processi neuronali), sia per il diffondersi dell’idea della trasmigrazione delle anime e della reincarnazione sia per vaghe concezioni di matrice New Age che immaginano l’unione delle anime con il tutto dell’universo. Si tratta di sintomi che potrebbero denotare l’assenza di adeguata catechesi relativamente al destino delle persone umane, benché il rapporto tra questi sintomi e l’effettivo modo di pensare delle persone non possa essere certificato con sicurezza: verificare la fede di qualcuno è quanto di più arduo si possa immaginare. Di fatto si può comunque registrare che non sempre – forse poche volte – la predicazione e la catechesi riescono a far passare nella mente degli ascoltatori la retta dottrina: il catechismo della mente e del cuore non corrisponde al catechismo che eventualmente si insegna.

Alcune ragioni dell’afasia escatologica

Se si volessero cercare le ragioni dell’ipotetica afasia escatologica se ne potrebbero individuare almeno due, tra loro strettamente correlate: 1. Il desiderio di prendere le distanze dalla predicazione immaginifica e terroristica del passato; 2. La difficoltà a trovare un linguaggio adeguato per dire il mistero del nostro destino.

La tradizione teologico-catechistica ci aveva tramandato una “geografia dell’aldilà” o “una fisica dei fini ultimi”, grazie alle quali si sapeva tutto o quasi tutto dei “luoghi” nei quali dopo la morte si sarebbe andati a finire. Leggere i manuali sui novissimi permetteva di imparare dalla Scrittura e dalla tradizione tempi, modi e luoghi della beatitudine o della condanna. Non si coglieva grande differenza tra le pagine di questi testi e, per citare l’esempio più noto, la Divina Commedia di Dante, almeno nella sua letteralità, che poteva trovare analogie in testi accresciutisi nel corso dei secoli: il testo più noto è l’Apocalisse di Paolo, sorta in ambiente monastico siriaco. I lettori dei manuali per lo studio teologico, e di conseguenza gli ascoltatori delle prediche e/o catechesi, erano così ampiamente informati della condizione dei loro cari defunti, per i quali erano invitati a pregare sperando che fossero in purgatorio e quindi potessero passare presto in paradiso. Quanto all’inferno, la predicazione si univa ad alcuni testi della liturgia (basti ricordare i canti dell’ufficio e delle messe per i defunti) per incutere timore e quindi stimolare ad evitarlo. Quanto al giudizio, duplicato in particolare e universale, se ne rimarcava la dimensione minacciosa e terrificante: si pensi al Dies irae, che in verità è un’invocazione struggente al Redentore affinché la sua opera non sia resa vana.

Le descrizioni sembravano un reportage giornalistico di un inviato speciale che aveva potuto visitare quei luoghi e ora ne dava un resoconto dettagliato. Ovviamente, questa geografia supponeva una visione del mondo prescientifica (alto-basso, sopra-sotto), che un po’ alla volta è apparsa obsoleta. Non occorre scomodare Rudolf Bultmann e il suo programma di demitizzazione per rendersene conto: buona parte delle persone, benché nel linguaggio quotidiano continui a usare un linguaggio prescientifico, quando comincia a pensare getta facilmente il sospetto sulla visione dell’aldilà ereditata dal passato.

I preti, che ormai sono stati quasi tutti formati dopo il Vaticano II, non sono esenti da questo desiderio di presa di distanza da una visione non più “attuale”: avvertendo una sensazione di disagio negli uditori, preferiscono evitare alcuni argomenti che potrebbero irritare. Tra questi va annoverata anche la morte, tema tabù per una cultura vitalistica. Da alcuni decenni gli analisti della nostra società tecnocratica parlano, in effetti, di rimozione della morte, benché gli anni di pandemia abbiano buttato in faccia a tutti la drammatica realtà del finire non programmato. Sarebbe utile al riguardo leggere il libro della sociologa canadese Celine Lafontaine, La société postmortelle1: vi si mostra come in una società altamente medicalizzata si stia progettando di far vivere le persone umane fino a cinquemila anni. Sullo sfondo sta il desiderio di immortalità e la convinzione che con la tecnica si riuscirà a realizzare questo desiderio. Paradossale la prospettiva, stante il senso di radicale fragilità che le persone percepiscono. Ma è proprio in rapporto a questo che forse il desiderio si fa più intenso: la tecnica diventa il nuovo dio a cui affidare l’esistenza per non essere inghiottiti dalla morte, che, nonostante tutto, resta “l’ultimo nemico”.

In rapporto a questo desiderio si pone il problema del linguaggio con il quale annunciare la speranza cristiana di superamento della morte. Lasciato da parte il linguaggio immaginifico della tradizione, che cosa si può dire? Privi di quello ci si sente un po’ spiazzati perché le persone hanno bisogno di risposte concrete; non si accontentano di fumose indicazioni che si limitano a parlare di compiutezza, di amore, di palingenesi. Non si può non tenere conto che, se l’immaginario è stato fecondo e si è espresso soprattutto nella letteratura di rivelazione (le Apocalissi), la causa va cercata nel bisogno delle persone umane di sapere. E non occorre scomodare la svolta empirica del sapere per giustificare le richieste che anche i più scettici manifestano di fronte all’annuncio dei novissimi: è inscritto nella mente umana il sapere l’aldilà secondo i modelli dell’aldiqua. Del resto, se non si vuole cadere in spiritualismi tante volte denunciati come platonici, si deve tenere conto che le persone umane non sono angeli: hanno un corpo, vivono nel tempo e nello spazio e quindi prefigurano il compimento in termini spaziali e temporali. Come pertanto dare risposte che non siano risibili perché legate a una visione prescientifica del mondo e che dicano la verità della condizione ultima degli umani e del cosmo? La difficoltà è notevole, e sta in questa difficoltà, come si diceva, la seconda delle ragioni che provocano il silenzio sui novissimi.

Ipotetiche vie di uscita

La via per uscire dalla difficoltà, che non verrà mai definitivamente risolta, non pare essere quella di ripetere il linguaggio della Bibbia: neanche il libro sacro di ebrei e cristiani è esente da processi proiettivi di carattere spaziale e temporale. Non si ricorderà mai abbastanza quanto la Costituzione Dei Verbum dice a proposito della verità della Sacra Scrittura: è quella che Dio ha voluto comunicare per la nostra salvezza (cfr. n. 11). Ciò comporta che si distingua, attraverso l’analisi dei generi letterari, la verità salvifica dal rivestimento frutto della cultura ambientale. Con ciò non si vuol dire che si dovrà abbandonare ogni immagine. La si dovrà però usare sapendo che gli umani non ne possono fare a meno, ma appunto come immagine. Ebbene, si potrà selezionare tra le immagini quelle che attengono maggiormente agli elementi distintivi dell’umano. Tra questi sicuramente la relazione. Del resto è in essa che le persone umane avvertono pienezza o delusione e quindi sofferenza. Non a caso il linguaggio biblico, quando si vada oltre la letteralità, rimanda alla relazione con Dio descritta con una molteplicità di immagini che dicono pienezza.

Da qui si potrebbe prendere avvio, tenendo conto che il desiderio fondamentale delle persone umane è quello di trovare relazioni buone: il lamento che condisce le conversazioni quotidiane riguarda appunto questo. In effetti, dalle relazioni dipende il benessere e il malessere. E il benessere appare quando, grazie a relazioni buone, le persone si sentono accolte, sorrette, e quindi gratificate, cioè dotate di forza vitale da parte di altre persone. Il vertice di questa esperienza è l’amore gratuito, quello che suscita stupore perché eccedente la misura che si era prefigurata, quello che fa sentire, nello stesso tempo, indegni di ciò che si riceve e grati per averlo ricevuto in dono.

Può apparire paradossale, ma ci può aiutare a trovare una via di uscita dalla difficoltà una scena della pièce teatrale di Jean Paul Sartre Huis clos: i personaggi vivono relazioni intricate dalle quali non riescono a staccarsi; Garcin, verificando che non può uscire da questo intrico, esce con la battuta: «L’inferno sono gli altri». Con ciò, come l’autore ebbe modo di spiegare, non si voleva dire che le relazioni sono un inferno: lo sono quando non creano libertà. In effetti, la ricerca fondamentale delle persone è vivere relazioni che diano vita.

Come parlare dei novissimi

Su questo sfondo si possono recuperare i classici novissimi, a partire però dal paradiso. L’ordine cronologico che il catechismo proponeva (morte, giudizio, inferno, paradiso) mantiene la sua pertinenza perché dispone le situazioni secondo una successione quasi cronologica, ma non sembra corrispondere al senso più vero dell’escatologia cristiana, poiché pone i due esiti finali come se si equivalessero. In verità la destinazione riservata dal Signore agli umani è la beatitudine, che nella tradizione è stata indicata con il termine “paradiso”. Questo corrisponde al desiderio fondamentale delle persone: vivere in pienezza senza più lutto né lacrime né morte.

La formulazione della condizione di pienezza mutuata da Ap 21,4 dice il nostro sapere circa l’aldilà: necessariamente proiettivo sia in senso contrario sia in senso eccedente rispetto alle esperienze della vita attuale, nella quale conosciamo momenti di felicità, che vorremmo fissare, e momenti di sofferenza, che vorremmo non esistessero, benché l’esperienza ci dica che né l’uno né l’altro desiderio sia realizzabile nella storia: la felicità è sempre segnata da fragilità, il dolore sembra non passare mai. Eppure il desiderio non si spegne: anche nelle persone più scettiche permane l’attesa di una situazione nella quale la fragilità della felicità sia vinta e il dolore sia definitivamente sconfitto. Se si tiene presente quanto sopra si diceva, cioè che le relazioni sono il luogo in cui l’umano si realizza o resta incompiuto, si può proiettare sull’orizzonte del compimento la relazione buona per eccellenza, quella con Dio, e lì trovare, per analogia, il contenuto del paradiso: non più un luogo, bensì un essere-con in forma definitiva, attingendo da Dio stesso la pienezza di quell’amore che nel corso della vita tutti gli umani cercano. Hans Urs von Balthasar aveva collegato la ricerca di Dio con la ricerca di pienezza che il sorriso della madre risveglia nel bimbo e che non trova attuazione se non nell’incontro con Dio stesso, che può essere anticipato nell’estasi mistica, per pochi, e che diventerà possibile oltre la storia, per tutti. Nulla di nuovo si potrebbe dire: Agostino all’inizio delle Confessioni lo aveva già espresso con l’icastica dichiarazione: «Ci hai fatto per (ad) te, e il nostro cuore non è quieto finché non riposi in te». In questa espressione si coglie la tensione degli umani verso una meta che è una relazione personale nella quale il soggetto umano può finalmente trovare riposo, gaudio, pace. Lì l’inquietudine nativa degli umani raggiunge il/la suo/a fine. È questo peraltro il nucleo della visione che il Nuovo Testamento ci trasmette quando, sia in Paolo sia in Luca, presenta la meta di chi muore in Cristo nell’essere con Lui, che grazie alla sua morte e risurrezione è diventato Signore (cfr. Fil 1,23; Lc 23,43) Sulle dimensioni di questa relazione si può certamente poi “ricamare” con immagini dando spazio alla poesia, ma con la consapevolezza che di immagini si tratta. Del resto, anche per descrivere le relazioni belle che si vivono nella vita attuale il linguaggio più adeguato è quello metaforico. E non si deve avere timore di attingere dalle metafore dell’amore per dire la pienezza di vita che Dio ha preparato per noi.

A partire da questa destinazione positiva si può, sub contrario, dire anche una parola sull’inferno. Su di esso sembra essere calato un silenzio ancora più profondo, in concomitanza con una cultura narcisistica, che sembra non permettere alle persone di assumersi le conseguenze di scelte sbagliate, fondandosi anche su una mal intesa concezione della misericordia di Dio.

Se si vuol mantenere il registro linguistico delle relazioni, si potrebbe dire che l’inferno è la negazione di ogni relazione, e quindi la condizione assurda nella quale una persona potrebbe trovarsi, stante il fatto che non si può vivere senza relazioni. Da qui si capiscono anche le immagini macabre che la tradizione ci ha trasmesso, tra le quali quella evangelica del pianto e stridore di denti (cfr. Mt 25,30) assume una rilevanza singolare: rimanda infatti alla desolazione che si prova quando si è perduto qualcosa, meglio qualcuno, di caro e si fa esperienza di esclusione dalla condizione di felicità sempre cercata. Si tratta di una situazione di profonda solitudine, dove non c’è alcuna comunicazione, dove si prova la “seconda morte” con il carico di significato che questa immagine porta con sé: se la morte è interruzione, percepita, di relazioni, qui c’è l’interruzione al quadrato. E non si deve pensare che Dio condanni questa situazione. Si potrebbe perfino dire che Dio è dispiaciuto di vedere fallire la destinazione da Lui disposta per gli umani, come un padre si dispiace di vedere un figlio andare alla deriva. Ma – si potrebbe obiettare – è possibile che Dio lasci che un suo figlio si perda? Questo problema ha travagliato la riflessione teologica fin dai primi secoli, e in una maniera meno superficiale di come non avvenga oggi. L’insegnamento ufficiale della Chiesa, con ragione, ha però sempre resistito all’idea che alla fine tutti saranno salvati. La ragione di questa resistenza sta nella serietà con cui la tradizione teologica ha rispettato la libertà umana: la persona umana è interlocutrice di Dio, e questo fatto comporta che anch’essa sia responsabile del destino che Dio ha disposto per lei. Con ciò non si è legittimati a pensare che qualche persona sia “all’inferno”. Se Dante vi aveva messo alcuni personaggi a lui per varie ragioni invisi, non vuol dire che abbia indovinato: il destino ultimo delle persone umane è conosciuto solo da Dio. Non a caso la Chiesa può dichiarare che qualche persona è beata o santa, ma non può dire alcunché relativamente a ipotetici dannati: il suo compito, infatti, è annunciare la salvezza, non la condanna.

Conclusione

Utilizzare il registro comunicativo della relazione aiuta a cogliere il senso più vero dell’annuncio escatologico cristiano, capace di resistere anche all’urto dei saperi scientifici e alle fughe mitologiche: tutti gli umani vivono e desiderano vivere relazioni buone, che danno vita, e quando le sperimentano vorrebbero che non finissero mai.

Nella predicazione e nella catechesi si dovrà aiutare a capire che la situazione dell’essere umano oltre la morte è anzitutto segnata dalla grazia vittoriosa di Cristo, come lo è la condizione attuale.

Davanti al credente non si prospettano esiti paralleli, quasi realtà predisposte che attendono di accogliere le persone. Non ci sono luoghi nei quali andare. È Dio il nostro “luogo”. Egli è il paradiso per chi lo raggiunge, l’inferno per chi lo perde. Di fronte al fine disposto da Dio si erge la libertà umana, con la sua tragica possibilità di costruirsi perfino contro il suo stesso destino, giungendo all’assurdo. Cosa che il cristiano non vuole per nessuno, per il fatto che fondandosi sulla grazia vittoriosa di Cristo ha il coraggio di sperare per tutti. In ultima analisi, annunciare i novissimi vuol dire tenere desta la speranza che la vita umana come Dio la pensa è destinata alla beatitudine, che è pienezza donata da relazioni buone che non finiscono mai.

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