giovedì 28 luglio 2011

Morta la grande scrittrice fuggita in Svizzera quando l'Armata rossa entrò in Ungheria. Il suo capolavoro fu «Trilogia della città di K»

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Ci sono scrittori che raggiungono il loro punto di luce con un solo libro e ad esso restano legati. È successo anche per una scrittrice che avrebbe meritato in vita il Premio Nobel per la letteratura e che ha scritto uno dei capolavori del Novecento, uno degli ultimi, visto che la Trilogia della città di K, esce negli anni Ottanta rivela, con sorpresa, la voce di Agota Kristof, scrittrice di origini ungheresi, nata, nel 1935 nel piccolo villaggio di Csikvánd, nella parte nordoccidentale del Paese, dal quale era fuggita in Svizzera con il marito e la figlia dopo la repressione dei moti di Budapest e l’invasione dell’Armata Rossa, nel 1956. «Come sarebbe stata la mia vita se non avessi lasciato il mio Paese? Più dura, più povera, penso, ma anche meno solitaria, meno lacerata, forse felice. La cosa certa è che avrei scritto, in qualsiasi posto, in qualsiasi lingua». È una riflessione che troviamo in un piccolo e straordinario libro autobiografico, L’analfabeta, edito da Casagrande. Racconta il suo rapporto con la scrittura e la lettura ed emergono le ferite sotto il comunismo, dopo la tragedia della seconda guerra mondiale. La Kristof mette in evidenza attraverso la sua storia personale la tragedia degli anni bui dell’occupazione russa dei Paesi dell’Est europeo. Nel 1956 lascia l’Ungheria, correndo tutti i rischi, con una bambina piccola, per ritrovarsi in Svizzera: «Quel giorno di fine novembre 1956 ho perso definitivamente la mia appartenenza a un popolo», scrive. Il Premio Nobel non potrà più riceverlo, perché se ne è andata ieri, all’età di 76 anni, dopo una lunga malattia, lasciandoci come testamento questo "trittico" che l’ha resa celebre, dopo un esordio letterario tardivo. Infatti i tre libri che compongono la "trilogia", una dura, scarna e complessa allegoria della guerra, sono usciti, prima singolarmente, Il grande quaderno nel 1986, La prova nel 1988 e La terza menzogna nel 1991, per poi trovare quell’unità che le tre prove rappresentano nella Trilogia della città di K, edito da Einaudi, che li riunisce nel 1998. E subito l’attenzione internazionale si muove intorno a questa scrittrice che vince premi (come lo Schiller e il Keller in Germania e il Kossuth proprio quest’anno in Ungheria, che non ha potuto ritirare per motivi di salute) e viene tradotta in trenta Paesi, un libro riconosciuto subito dalla critica e dai lettori come un capolavoro, tanto da designare negli ultimi vent’anni la Kristof come una delle voci più intense, appassionate e moralmente profonde della tradizione letteraria europea, nel suo raccontare metaforicamente il tema dell’identità lacerata, un’identità che non trova un luogo, in una perenne condizione da straniera. Anche se lei «si è considerata ungherese sempre, anche se scriveva in un’altra lingua, il francese», come ha detto il regista Janos Szasz che sta girando un film ispirato alla sua Trilogia. Il capolavoro inizia con due gemelli che una madre disperata è costretta ad affidare alla nonna, lontano da una grande città dove cadono le bombe e manca il cibo. Siamo in un Paese dell’Est, imprecisato nella definizione topografica anche se è chiaro il riferimento all’Est Europa: questa sospensione spazio-temporale, rappresenta la novità stilistica di un libro dalla scrittura secca e arsa, che entra nella profondità dell’anima, quasi raccontando una sorta di favola nera, dove il tempo assente sembra accentuare maggiormente la tragedia di questi due ragazzi che attraversano gli orrori della guerra, grazie anche ai toni per nulla consolatori che usa la scrittrice, segnati da una ossessione, da una terribilità, da una implacabilità nello snudare l’esistenza attraverso la scrittura che rende perfetta la rappresentazione di questo dolore metafisico, che travolge l’intero mondo, attraverso le figure dei due ragazzi nella loro dimensione d’esilio. In un Paese occupato dalle armate straniere, i due gemelli, Lucas e Klaus, scelgono due destini diversi: Lucas resta in patria, Klaus fugge nel mondo cosiddetto libero e, quando si ritroveranno, dovranno affrontare un Paese di macerie morali. Ne emerge un libro incandescente e dolente, metaforico e acuminato, un viaggio nel dolore personale e collettivo, che vuole tracciare le identità violate e private del Novecento. Un libro che trova la verità in quello che la Kristof fa dire a Lukas: «Cerco di scrivere delle storie vere, ma, a un certo punto, la storia diventa insopportabile proprio per la sua verità e allora sono costretto a cambiarla. Cerco di raccontare la mia storia, ma non ci riesco, non ne ho il coraggio, mi fa troppo male. Allora abbellisco tutto e descrivo le cose non come sono accadute, ma come avrei voluto che accadessero». E metaforicamente la storia di Agota Kristof contiene anche il tema della ricerca dell’identità in un’altra terra. Lei, migrante ante litteram, per necessità di vita, ha avuto bisogno di un’altra lingua e ciò non le è stato d’intralcio per centrare il capolavoro che la vita, la sua verità e la sua piena e ossessiva nostalgia, le ha dettato: «Questa lingua, il francese, non l’ho scelta io. Mi è stata imposta dal caso, dalle circostanze. So che non riuscirò mai a scrivere come scrivono gli scrittori francesi di nascita. Ma scriverò come meglio potrò. È una sfida. La sfida di un’analfabeta».
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