venerdì 17 maggio 2019
Alla Fondazione Prada una grande retrospettiva dell’artista morto nel 2017 ed esponente di spicco dell'“Arte povera”: tra storia e sacro, materia e metafora per una «giusta bellezza»
Jannis Kounellis, “Senza titolo” (2004), piombo e stoffa / foto Agostino Osio - Alto Piano / Fondazione Prada

Jannis Kounellis, “Senza titolo” (2004), piombo e stoffa / foto Agostino Osio - Alto Piano / Fondazione Prada

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Non è solo la prima grande mostra dopo la morte, avvenuta nel 2017 a 81 anni, ma è una delle più ampie retrospettive mai dedicate a Jannis Kounellis quella aperta in occasione della Biennale nelle sale di Ca’ Corner della Regina, la sede veneziana di Fondazione Prada (fino al 24 novembre). Curata da Germano Celant, presenta più di 60 lavori dal 1959 al 2015 provenienti da istituzioni e musei italiani e internazionali. Un’occasione per gettare uno sguardo complessivo sull’opera di uno degli artisti italiani – per quanto nato al Pireo, tale si considerava al punto di scegliere di non parlare più greco – che più hanno segnato il secondo Novecento.

Kounellis, dopo la primissima stagione legata alla pittura e accanto a una prassi di tipo performativo, si affida a un vocabolario ridotto e poco propenso all’espansione: ferro, lana, carbone, caffè, fuoco (e la fuliggine, sua traccia residuale), iuta, pietre, cactus, cappotti… Sono segni, al pari di quelli raccolti nel paesaggio urbano e dipinti nelle tele degli esordi. A fronte di questa operazione di selezione, Kounellis lavora attraverso processi combinatori, stratificazioni e slittamenti che consentono al paesaggio della sua opera di variare. Questa dialettica, ma anche questo equilibrio, tra continuità e variazione consente di sottolineare alcuni caratteri che percorrono l’intera carriera di Kounellis.

C’è ad esempio una dimensione funeraria che si somma a quella civile. La solennità tragica del senso spaziale e compositivo di Kounellis mescola il registro dell’epica alla tragedia, in una inestricabile mescolanza di impeto rivoluzionario e pessimismo. Kounellis sembra celebrare costantemente un grande rito di passaggio, una transizione sempre in atto. Rispetto all’impegno conclamato di molti artisti a lui contemporanei, la cui ideologizzazione spesso radicale ne ha comportato anche il precoce invecchiamento dell’opera, Kounellis ha sempre legato il suo lavoro al momento storico cercandone però di essere un commento oracolare – Celant osserva come «Kounellis identifica la figura dell’artista con quella del suo veggente». Una natura politica nel senso più ampio, che supera il contesto e che si colloca in quella dimensione “classica” che costituisce uno dei trait d’unionpiù forti di tutta la sua opera.

La dimensione classica è nell’evidenza stessa dell’oggetto. È un fatto di misura che allo stesso tempo è un fatto di peso e di equilibri. Scriveva Kounellis: «Quello che posso sostenere è una vecchia idea, la misura; la misura di un foglio di carta 1 metro x 70 cm, e di un doppio letto, e della divisione della stanza, e di una porta. Il supporto che nel 1968 raccoglieva il Viva Marat viva Robespierre, raccoglie ora e con lo stesso spirito, il ritrovamento di un’immagine che pretende di presentarsi “equilibrata” davanti alla storia, senza tradire l’idea che il peso esprime una giusta bellezza. Vorrei insistere sul valore assoluto, ma laico, di un tondo di sapone. E tentare di introdurvi in una perizia formale che, del passato, ha l’amore per il viaggio, senza trascurare gli sforzi compiuti dai pittori italiani del dopoguerra».

Classica è la gestione drammaturgica dello spazio e la capacità delle opere di creare spazio attorno a sé: classica perché la proporzione è sempre umana, così come la scelta di campo è sempre legata alla familiarità dell’esperienza. Classica nella matrice è l’interazione vin- colante tra base e forma. Classico è il riferirsi costantemente alla tradizione come bacino semantico. Nel 1969 assembla una lastra di ferro, una mensola e un uovo: cos’è questo se non un pensiero classico – classico come potevano intenderlo Piero della Francesca e le Corbusier – che fonde in sé la forza dell’arcaico e il sublime della forma?

Sebbene quando a vent’anni decise di venire in Italia e a Roma avesse scelto, in una logica espansiva di apertura al mondo, di interrompere fra sé e la Grecia ogni legame culturale, la storia gioca un ruolo sempre più forte in un processo di mitopoiesi, anche personale: «Sono un vecchio Ulisse senza Itaca innamorato della pesantezza dell’arte » disse in una delle ultime interviste. In Kounellis è costante il problema della bellezza: al punto che alcuni risultati appaiono segnati dall’estetismo (e senza dubbio i suoi epigoni ne hanno disidratato la ricerca nei codici del “radical chic”). È quanto accade ad esempio a partire dagli anni 80, gli anni della lastra e della putrella come forze di compressione e di un deciso ritorno alla natura del quadro e, in un certo senso, della pittura: il problema compositivo si fa particolarmente spiccato e forse anche un po’ maniera (anche gli ultimi anni, a parte alcune fiammate, non sono esenti dalla ripetizione).

In ogni caso, la bellezza per Kounellis coincide non con il buono e il vero, ma con il “giusto”: «La bellezza è un fattore rivoluzionario e in quanto tale è indice di equilibrio. Esistono molti modi per rappresentarla, ci sono molte strade per ottenere la bellezza. Inoltre quando si ha un’idea di giustizia formale, si trova sempre bellezza ».

La tensione rivoluzionaria coincide con la dimensione alchemica, processo di trasformazione che spiega perché la materia è in lui così essenziale. Quando Kounellis sostiene di radicarsi in Caravaggio, ossia in una pittura non realista (la quale invece rappresenta, cioè simula) ma del vero – e per questo rivelativa – esprime questo pensare la materia. Se Caravaggio va dalla rappresentazione del reale alla realtà, Kounellis parte dalla presentazione del reale per porlo su un piano metaforico. Ogni oggetto è allo stesso tempo se stesso e metafora. Un cappotto è un cappotto, una putrella una putrella. Anche la grappa è grappa, con il suo odore così forte da essere quasi nauseante. Per virtù dell’arte avviene uno slittamento, una nuova acquisizione/rivelazione di senso. Su tutti, il fuoco è energia, potere di trasformazione nella storia.

In questo campo si innesta una dimensione spirituale, forte per quanto laica, che investe la materia in tutta la sua evidenza, ricomposta però in una natura di tipo visionario. La Margherita di fuoco, con la lingua azzurra della fiamma che danza nel centro della lamiera, e la porta murata con le pietre sono corrispettivi degli autoritratti in cui Kounellis si fotografa o si disegna con oggetti (tra cui fiamme e pietre) che escono dalla bocca. Come il Cristo di Patmos dalla cui bocca esce una spada? Kounellis, osserva Celant, considera «l’arte come qualcosa di “non concluso”: un perimetro sacro in cui si manifesta l’intensità del reale, che può assumere le forme tanto di un segno quanto di un corpo». L’artista veggente non può che parlare un linguaggio apocalittico.

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