venerdì 9 settembre 2016
​Il regista russo racconta la Shoah: "Mostro la violenza sullo spirito. Il pericolo di dimenticare".
KONCHALOVSKY oltre le immagini
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«Sono russo e parlo da russo». E Andrej Konchalovsky parla, appunto, da russo. Crede nel valore della Patria, anche se l’Unione Sovietica gli ha dato parecchio filo da torcere, in gioventù, costringendolo a fuggire. Dopo il crollo del comunismo, è tornato a casa. E una nuova vita artistica è iniziata. Paradise è uno dei vertici. Tema delicato, forse non più scomodo, quello della Shoah. Ma raccontarlo, per lui, ha ancora un senso. Morale e storico. «Chi conosce la Shoah oggi tra le nuove generazioni? I giovani nemmeno sanno più chi sia Mussolini. Non sanno nulla perché non ricordano nulla. Per loro è sufficiente spingere un pulsante, accedere a internet e leggere qualcosa lì. Umberto Eco ha scritto una bellissima lettera al nipote mettendolo in guardia sul pericolo della perdita della memoria». Tre sono i personaggi del suo film: un tedesco nazista, un francese collaborazionista, una russa vittima della storia. Perché questa scelta? «L’essere umano ha tre livelli di esistenza: quello animale, che sovrintende alle esigenze fisiologiche, senza le quali non possiamo vivere; quello superiore, idealista, completamente scevro da qualsiasi esigenza corporale; infine, quello intermedio, in cui si colloca l’essere umano, dove si incontrano l’angelo e il diavolo. I tre ne sono lo specchio». Il bianco e nero del film come scelta non solo stilistica. «Se giri un campo di concentramento a colori, diventa Nabucco di Verdi. Se prendi un gruppo di persone magre, scheletriche, e fai indossare loro un pigiama a strisce, l’effetto è tremendo, è come un melodramma. Banalizzare l’Olocausto è la cosa più terribile. Quindi ho cercato di mostrare, in bianco e nero, la violenza non sul corpo, ma sullo spirito, che non è meno dolorosa». Che approccio ha scelto per distinguersi da altri registi nel raccontare l’Olocausto?«È molto facile mostrare le cose, il dolore, il sesso. Nella pornografia basta prendere due corpi. Ma far pensare il pubblico, farlo lavorare insieme a te in un film, farlo riflettere: questo è molto arduo. Soltanto quando il pubblico diventa tuo coautore e non si limita a vedere, puoi dire di aver girato bene un film». Fondamentalismo, nazionalismo. Sono parole che ci preoccupano. «Il fondamentalismo è un termine interessante, ma oggi viene erroneamente appiccicato a tutti i movimenti musulmani estremisti, mentre è l’esagerazione di una certa filosofia e quindi prescinde dalla connotazione religiosa. Il nazismo, che voleva lo sterminio degli altri in nome della propria supremazia, era fondamentalista. Fondamentalisti erano quelli che trasportavano le persone di colore schiave nelle Americhe, che sterminavano i nativi americani, che rinchiudevano nei ghetti. Poi c’è il nazionalismo. Essere nazionalisti – e lo sono stati grandi uomini, penso a Sadat in Egitto – significa soltanto lavorare per la propria nazione. Una cosa importante. Dopo la Seconda guerra mondiale il mondo ha creato u- na gran confusione, mescolando questi termini». Cosa pensa di questo nostro Continente sempre più vecchio e stanco? «Sono preoccupatissimo. La cultura e la civiltà europee sono sottoposte ad una continua erosione. L’Europa è in pericolo. La democrazia non si fonda soltanto sul riconoscimento dei propri diritti, ma anche dei doveri. E chi parla più di doveri oggi?». Ma la democrazia è un valore. «Nessuno lo mette in dubbio. Ma oggi sotto l’ottima causa e il grande nome della democrazia, per difendere i diritti umani, si sganciano bombe sulla Serbia, sulla Libia, sull’Iraq. A volte il male sa presentarsi in abiti molto eleganti». Oggi mons. Dario E. Viganò le consegna il Premio Robert Bresson della Fondazione Ente dello Spettacolo.  «Bresson è stato un grande artista. Lui non ha mai fatto cinema, ma cinematografia; lui non ha mai girato film, ma immagini sulla pellicola; lui non ha ripreso la storia fisica delle cose, ma ha mostrato ciò che sta oltre. Questa è la cosa più potente, efficace, duratura che un regista possa fare. Le immagini sono in fondo qualcosa di volgare, di predigerito, mentre la parola è più sofisticata, fa appello alla fantasia. L’impegno più difficile di un regista è quello di far vedere ciò che sta dietro la superficie delle immagini, il mondo fisico, andando a percepire, mostrare, accarezzare la sostanza spirituale. Questo e ciò che Bresson ha fatto durante tutta la sua vita e in tutti i suoi film. Quindi non posso che sentirmi onorato perché qualcuno mi riconosca come suo seguace».
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