venerdì 22 febbraio 2019
A Vienna il Mak dedica una grande retrospettiva alla figura della Secessione che a cavallo tra '800 e '900 progettò ambienti e oggetti in cui le arti si integrano in una fusione di funzione e forma
L'arredo per la camera da letto della casa di Moser, 1901, esposto alla mostra del Mak a Vienna (© Aslan Kudrnofsky/MAK)

L'arredo per la camera da letto della casa di Moser, 1901, esposto alla mostra del Mak a Vienna (© Aslan Kudrnofsky/MAK)

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Koloman Moser moriva a Vienna, cinquantenne, nel 1918, un anno prima che a Weimar aprisse il Bauhaus. A distanza di cento anni è difficile non individuare un ideale passaggio di testimone tra l’artista e designer austriaco e la scuola di Gropius, seppure con uno scarto significativo di dimensioni e un approccio sotto l’egida dell’architettura. Ma la mostra davvero grande che a Vienna il Mak – il museo delle arti applicate – dedica a Moser (cinquecento pezzi, di cui molti mai esposti, tra mobili, oggetti d’uso, progetti, studi, tessuti, dipinti, manifesti…) rende una volta di più evidente quanto il Bauhaus, con cui convenzionalmente si fa spesso iniziare la storia ormai secolare del “moderno”, sia una testa di ariete fissata a un tronco assai lungo.

Figura davvero di cerniera e, soprattutto, estremamente polivalente (“Artista universale tra Gustav Klimt e Josef Hoffmann” dice il sottotitolo tedesco della mostra) Moser muove dalla prassi storicista per approdare a soluzioni e soprattutto spirito “modernisti”, a partire dal coniugare funzionalità e semplicità nell’unità offerta dalla forma, e dal legare progettazione e produzione (anche se su scala ancora artigianale). Si trattava di fornire una nuova “identità visuale” alla quotidianità di un’alta borghesia austriaca ignara dell’imminente tracollo dell’Impero ma conscia delle trasformazioni sociali in corso.

È una ricerca che raggiunge uno dei suoi picchi nella fondazione nel 1903 con Hoffmann della Wiener Werkstätte (traducibile con “Officina viennese”), frutto di un lungo percorso alla ricerca del Gesamtkunstwerk, l’“opera d’arte totale” su cui converge ogni disciplina. E pensare che gli esordi di Moser sono tutt’altro che in una direzione di novità. La sua formazione e le prime esperienze professionali sono in ambito storicista.

Come incipit la mostra, curata da Christian Witt-Dörring e Elisabeth Schmuttermeier, propone un enorme stipo con tanto di inserti rubensiani, un vassoio e una brocca realizzati a Vienna intorno al 1880 in un barocco così sovrabbondante che avrebbe suscitato sconcerto due secoli prima: senza questo confronto è difficile misurare la novità dirompente con quanto i viennesi avrebbero proposto solo pochi anni dopo. Dalla tradizione produttiva Moser raccoglie però un prezioso fatto di metodo: la Gesamtgestaltung, un approccio complessivo che unisce architettura, pittura e scultura per realizzare progetti di arredamento.

La svolta per Moser arriva con una vera e propria folgorazione, quando vede una litografia di Klimt con l’Allegoria della scultura. L’artista ventenne muta il suo linguaggio, che si fa sempre più curvilineo e bidimensionale (è la cosiddetta Flächenkunst, “arte piatta”, viennese in cui si rivela l’influenza dall’arte giapponese). È un processo di progressiva astrazione che almeno nelle prime fasi mantiene una misura narrativa legata all’esperienza di Moser come illustratore.

La mostra consente di seguire passo a passo l’affinamento del suo linguaggio attraverso molte grafiche, bozzetti, studi, stampe di tessuti: è nell’incontro con la natura – la foggia delle foglie, ad esempio – che si sviluppa in modo completo il processo di stilizzazione. Ecco allora i bicchieri che si slanciano come fiori su alti steli, le forme organiche dei vasi e delle decorazioni degli armadietti. Nei pattern astratti degli studi per i pavimenti si nota l’attenzione all’organizzazione matematica del mondo naturale.

Moser entra nella Secessione, dove convince i sodali a dare vita a una rivista mensile: è “Ver sacrum”, di cui cura veste grafica e impaginazione. Da figura subalterna, finalmente Moser acquisisce un ruolo guida e a questo punto è una delle figure di punta della ricerca artistica a Vienna. Si dedica esclusivamente all’allestimento di mostre, alla scenografia, alla progettazione di interni, alla moda. Stringe uno speciale sodalizio con Josef Hoffmann, in collaborazione con il quale fornisce il concept di interni alla cui realizzazione intervengono poi gli artisti. L’esempio principale è costituito dagli arredi per il palazzo dell’industriale Nikolaus Dumba: Hans Makart fornisce lo studio, Gustav Klimt il salone della musica e Franz Matsch la sala da pranzo (1897-98).

Koloman (o Kolo, come viene chiamato) Moser si rivela abilissimo regista, dalla visione complessa e proiettata in avanti. Intuisce che il suo progetto per segnare una svolta culturale deve essere capillarmente diffuso. Lui e Hoffman insegnano all’università per formare generazioni di nuovi artisti. Contestualmente danno avvio all’esperienza della Wiener Werkstätte.

Moser e i suoi collaboratori, tra cui anche diverse donne, danno forma a oggetti d’uso dalle forme semplici, privi o quasi di ornamento a parte essenziali motivi astratti, realizzati in materiali antichi come cristallo e ceramica o insoliti come l’acciaio, tutti trattati in modo nuovo e spesso modulare, ma in cui la componente “spirituale” – una dimensione che attraversa gran parte i fenomeni del moderno – è forte. I mobili sono contrassegnati da compattezza e rigore, tra ottimizzazione degli spazi e rara coerenza progettuale. L’asciutta struttura ortogonale governa proporzioni, foggia e distribuzione degli arredi.

Dove è la vera differenza tra Moser e Bauhaus? I tempi e i luoghi. Moser lavora sì nella ricca e capitale di un impero multiculturale e in fermento (è la Vienna di Freud e Kraus, di Mahler e Schönberg), ma nella quale le spinte innovative sono compensate da un tradizionalismo formale per di più destinato a eternarsi nella mitologia in seguito alla caduta. Weimar è invece la capitale di una repubblica che, seppur minata economicamente e anch’essa destinata a un tragico collasso, vive un periodo di straordinaria vivacità non solo culturale ma anche sociale. E, soprattutto, la dimensione plurale consente al Bauhaus una maggiore resistenza e continuità, anche nella diaspora americana.

Koloman Moser, bozzetto della finestra sud della chiesa di Sankt Leopold am Steinhof, a Vienna, 1905'06 (© MAK'Georg Mayer)

Koloman Moser, bozzetto della finestra sud della chiesa di Sankt Leopold am Steinhof, a Vienna, 1905/06 (© MAK/Georg Mayer) - Georg Mayer-MAK

Dove si incaglia Moser è infatti nel pubblico: che al di fuori di alcune personalità nella maggior parte fatica a seguirlo. Si trova a pensare che il suo talento venga sprecato. Nel 1905 Otto Wagner lo coinvolge per le vetrate della chiesa di Sankt Leopold. Moser riscopre la prima vocazione alla pittura, rinuncia all’unità delle arti e al mondo nuovo che aveva contribuito in modo determinante a creare. Nel 1907 lascia la Wiener Werkstätte e si dedica alla sola pittura. Realizza paesaggi, ritratti, nudi simbolisti che guardano da vicino i dipinti di Hodler al punto da apparirne una sorta di epigono. Dipinti ben fatti, ma la sua grandezza sta altrove.

Vienna, Mak
KOLOMAN MOSER
Fino al 22 aprile

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