domenica 28 maggio 2023
A colloquio col vincitore del National book award 2014, che nell’ultimo libro affronta il tema delle tante guerre atroci, giustificate ideologicamente, in cui la misericordia apre varchi insperati
Lo scrittore statunitense Phil Klay

Lo scrittore statunitense Phil Klay - WikiCommons

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È uno dei nomi di grido della narrativa americana di oggi. Il suo testo di esordio, Fine missione, racconto di un’esperienza bellica in Iraq come marine, con tutti i risvolti etici e i dubbi morali che la guerra porta con sé (soprattutto quella che veniva considerata «giusta»), è stato elogiato dall’allora presidente Barack Obama e si è guadagnato anche il National book award nel 2014, oltre a vari numerosi riconoscimenti. Ora Phil Klay torna in libreria con un romanzo che racconta La buona guerra (Einaudi, come il precedente; pagine 456, euro 22,00). Un libro durissimo nel parlare dei conflitti che una dei protagonisti, la giornalista Lisette, vive tra le assolate steppe dell’Afghanistan e le foreste della Colombia infestate dalla coltivazione di coca. Lo sguardo cristiano di Klay vi emerge con nitidezza e calore, nella descrizione senza infingimenti del male (in questo ricorda l’amata Flannery O’Connor) ma anche aprendo squarci inediti di quella grazia che solo il dono di sé, il perdono e la misericordia possono infondere in una storia bagnata di sangue, di lacrime e di violenza.

Questo suo ultimo romanzo, in cui la guerra in Colombia è la vicenda principale, è originariamente intitolato Missionaries. Ma il libro parla di una giornalista, di un contractor, di narcos, paramilitari…, ma non si vedono preti o suore. Dove sono i missionari?

Ciascun personaggio del romanzo è membro di un’istituzione che cerca di rimodellare il mondo in un qualche modo, sia questa istituzione un gruppo paramilitare locale, l’esercito colombiano, gruppi di mercenari internazionali, l’esercito americano o i mass media. E ciascun personaggio è alle prese con il significato ideologico di quello che sta facendo all’interno di questi gruppi, e con l’impatto che le proprie azioni hanno sulla realtà che lo circonda. Anche quando un personaggio pensa in termini puramente utilitaristici, io me lo immagino come una sorta di missionario, uno che cerca di modellare il mondo in una certa direzione. Spesso siamo ciechi di fronte ai valori che internalizziamo e a quelli che portiamo all’esterno. Uno degli obiettivi di questo mio romanzo è quello di rendere visibile la natura delle guerre attuali, e metterlo in mostra.

In un passaggio davvero drammatico e molto bello, dal punto di vista narrativo, un personaggio afferma: «La misericordia è sempre un’ingiustizia ». Sappiamo quanto il tema della misericordia di Dio sia caro a papa Francesco. Cosa è per lei la misericordia di Dio?

Mi soffermo spesso a questa questione ripensando a quello che scrisse Jean Amery, uno scrittore torturato dai nazisti e mandato ad Auschwitz. Scrisse in un suo libro: «Quello che è avvenuto, è avvenuto. Questa affermazione è tanto vera quanto ostile alla morale e all’intelligenza. Il potere morale di resistere contiene in sè stesso la protesta, la rivolta contro la realtà». Amery non ammetteva la possibilità «del pentimento, che ha un significato solo teologico e quindi non è per me rilevante». Nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij Zosima dice che l’unico cammino per la salvezza è «rendersi responsabili per i peccati di tutti gli uomini». Ma questa assunzione di colpevolezza non significa cercare un capro espiatorio, bensì ragionare all’interno di una religione nella quale la misericordia e la grazia sono possibili e Cristo è morto per tutti. Nella guerra moderna noi abbiamo a che fare con società che danno luogo a massacri di massa. Dove la giustizia non viene attuata. Dove le più diffuse ingiustizie restano in vita. Ma l’esistenza ancora attuale della società è un sintomo di come esista un’estrema preoccupazione di milioni di anime in cerca non solo di giustizia, ma anche di misericordia. Questo è attestato dal fatto che cerchiamo di fuggire dalla prigione del nostro io isolato e di raggiungere una comunità.

In un altro brano leggiamo una scena impressionante: un ex membro di una forza armata, il cui capo ha compiuto assassini efferati (non li riportiamo qui per la crudezza, che è comunque veramente funzionale alla narrazione, senza compiacimen-ti), si trova davanti alla figlia della vittima. Luisa, questo il suo nome, aiuta Abele, l’ex combattente, a rifarsi una vita. È solo fiction o realmente il perdono e la riconciliazione possono far ricominciare la storia?

Il perdono che segue un’atrocità non è fiction, avviene in continuazione. Ma non significa che ciò accada senza alcuna preoccupazione per la giustizia. Dopo che un assassino razzista uccise nove persone a Charleston, in South Carolina, le famiglie di alcuni degli uccisi vennero in tribunale per manifestare il loro perdono. Nadine Collier, la cui madre venne ammazzata, disse all’assassino: « Mi hai preso qualcosa di veramente prezioso. Non parlerò più con mia madre. Non potrò più abbracciarla. Ma io ti perdono e ho misericordia della tua anima». Questo non significa voler liberare subito quel colpevole dal carcere e lasciarlo di nuovo libero per strada. Non significa che non ci debba essere un processo in risposta alle azioni di quell’assassino. Ciò che questo gesto significa è il ripudio, nel modo più forte e in termini che ispirano molto il nostro cuore, del male che è stato fatto tramite l’affermazione della comune umanità e una simpatia che si connette a livello spirituale, un livello nel quale tutti sono figli di Dio.

Il Papa agli scrittori: «Abbiamo bisogno di voi»

Il Papa e Martin Sorsese durante l'udienza di sabato scorso

Il Papa e Martin Sorsese durante l'udienza di sabato scorso - Vatican Media

Una quarantina di autori, scrittori, poetesse e studiosi di letteratura si sono dati appuntamento in questi giorni a Roma, presso la sede di Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti, per una tre giorni di studio su “The global aesthetics of the catholic imagination”, promossa dal quindicinale diretto da Antonio Spadaro e dalla Georgetown University di Washington. I partecipanti sono stati ricevuti ieri in udienza da papa Francesco. Tre giorni di riflessioni con contributi e sguardi dagli Stati Uniti, dall’Asia, dall’Africa, con un particolare attenzione alla poesia. Tra i partecipanti, Martin Scorsese, lo stesso Phil Klay, che qui viene intervistato, Chika Unigwe, Enuma Okoro, Christopher Beha, Alice McDermott, Tess Gunty, Ewa Chrusciel, Hilary Davis, Moira Egan, Robison Kelly e Sally Read. Durante l’udienza il Papa ha affrontato vari temi dei quali proponiamo una breve sintesi: «So che in questi giorni avete riflettuto su quali siano i modi attraverso i quali la fede interroga la vita contemporanea, cercando così di rispondere alla fame di significato. L’arte è un antidoto contro la mentalità del calcolo e dell’uniformità. In questo senso il Vangelo è una sfida artistica, con una carica rivoluzionaria che voi siete chiamati a esprimere grazie al vostro genio con una parola che protesta, chiama, grida. Oggi la Chiesa ha bisogno della vostra genialità perché ha bisogno di protestare, chiamare, gridare. Voi siete anche la voce delle inquietudini umane. Tante volte le inquietudini sono sepolte nel fondo del cuore. L’arte è il terreno fertile nel quale si esprimono le opposizioni polari della realtà, che chiedono sempre un linguaggio creativo e non rigido, capace di veicolare messaggi e visioni potenti. Siete fra coloro che plasmano la nostra immaginazione. Abbiamo bisogno della genialità di un linguaggio nuovo, di storie e immagini potenti capaci di gridare al mondo il messaggio evangelico, di farci vedere Gesù».



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