sabato 10 settembre 2022
Il padre e omonimo del grande storico dell'arte era un poeta e frequentò personaggi come Papini, Prezzolini, Campana, Soffici, Vallati e molti altri. Viene ora riproposta una sua raccolta
Jurgis Baltrušaitis negli anni Venti / WikiCommons

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«utto era mistero per la mia fede, la mia vita era tutta "un’ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull’abisso"». Così Dino Campana cesella il componimento letterario La Notte, compreso nei Canti orfici pubblicati nel 1914 per l’editore Vallecchi per iniziativa di Giovanni Papini e Ardengo Soffici, allora grandi mattatori della casa editrice fiorentina. Balzano subito agli occhi, nell’estratto posto in apertura, le virgolette a caporale e la citazione compresa tra esse. Spolverando la memoria degli anni liceali sovviene il ricordo di alcuni misteri che costellano la raccolta poetica. Noti sono quelli dovuti al sottotitolo, Die Tragödie des letzen Germanen in Italien, la tragedia dell’ultimo germano in Italia, e alla dedica, «a Guglielmo Imperatore dei Germani l’autore dedica». Ma di quello della citazione poco si conosce, di cui potrebbe accorgersene soltanto il lettore attento dell’opera completa. La menzione, resa esplicita dalle virgolette, è bizzarra. Non solo perché il poeta di Marradi non dichiara l’autore del verso, ma anche perché è l’unica, in un testo cosparso di allusioni, richiami e riferimenti nascosti. Il verso riportato da Campana è tratto dalla prefazione alla raccolta poetica La scala terrestre dello scrittore, poeta, diplomatico lituano di lingua russa Jurgis Baltrušajtis (o Baltrušaitis, pagine 68, euro 4,99), che ora, dopo molti decenni, è stata ripubblicata dall’editore Bietti con la curatela di Guido Andrea Pautasso.

Il nome del lirico baltico non deve trarre in inganno. Malgrado l’omonimia, non va confuso con il celebre storico dell’arte e del simbolismo, sempre Jurgis Baltrušaitis, ma figlio del poeta. Baltrušaitis padre (Paantvardžia, 1873 - Parigi, 1944) nei primi anni del Novecento aveva già composto e pubblicato a Mosca due raccolte di poesie, Zemnye stupeni e Gornaja tropa, entrambe di ispirazione simbolista. Sulla rivista 'Vesy', organo della corrente letteraria russa, il poeta aveva tradotto le rassegne della letteratura italiana redatte da Papini per il 'Leonardo', entrando così in contatto con l’ambiente fiorentino, anche per merito del connazionale Michaili Semenov. La sua attività di traduttore però non si esaurisce con la collaborazione alla rivista letteraria ma prosegue, rendendo disponibili al lettore russo opere di Ibsen, di Oscar Wilde, di Maurice Maeterlinck, di Gerhart Hauptmann, di August Strindberg, di Knut Hamsun e di Gabriele d’Annunzio, che potrebbe avere conosciuto di persona. Baltrušaitis, nello stesso periodo era assiduo frequentatore dell’Italia. Trascorreva le vacanze sulla riviera adriatica ma non rinunciava a soggiornare a Firenze. In particolare si recava regolarmente al famoso locale delle avanguardie, le Giubbe Rosse, dove capitava di imbattersi negli alfieri del rinnovamento culturale dell’Italia degli anni di inizio secolo.

La cerchia fiorentina che spesso sedeva ai tavoli del caffè a ricamare progetti e idee era composta, tra gli altri, dal filosofo Giovanni Vailati, dallo scrittore Giuseppe Vannicola, da Ardengo Soffici, nonché dal pittore Armando Spadini, dal giornalista Giovanni Amendola e, naturalmente, dai due grandi battitori della stagione delle riviste, Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini. Proprio a quest’ultimo si deve un cammeo del poeta lituano presente in Passato Remoto. «Nel remotissimo 1904 – scrive – apparve nella mia vita la cara figura, mai dimenticata, del poeta Jurghis Baltrusaitis. Lo incontrai a Firenze in quel caffè delle Giubbe Rosse dove, in quegli anni lontani, si udivano e si leggevano tutte le lingue d’Europa. Era, a quel tempo, un giovane sulla trentina, forte e dritto, con un viso che pareva perpetuamente bruciato dai ghiacci del polo o dal sole dell’equatore e dove splendevano due occhi chiari, sereni, azzurri che sembravano occhi di angelo in esilio incastonati nella figura di un rude pastore del Settentrione. L’espressione della faccia era seria, a momenti severa e quasi minacciosa ma se per caso sorrideva si scopriva con meraviglia, in quel volto già tormentato dal dolore e dal pensiero, la divina luce della fanciullezza. Si diventò amici in pochi giorni, come avviene in quella beata età che corre dai venti ai trenta». Tra i due scoppiarono stima, amicizia e confronto culturale, come testimonia l’ingente epistolario di oltre cento lettere, purtroppo ancora inedito. Baltrušaitis per due ore a settimana impartiva a Papini lezioni di russo, convinto che tra le due lingue non sussistessero grandi differenze e lo provava ricostruendo «complicatissimi alberi genealogici di radici e di etimi – continua Papini –, sì da giungere a un primigenio monosillabo o bisillabo dal quale derivavano, attraverso infinite variazioni, parole russe e italiane di simile significato».

Non fu solo Papini a stringere solidi rapporti con lui. L’anno successivo comincerà pure il sodalizio con Giovanni Amendola, interessato al pensiero politico russo, e con sua moglie Eva Amendola Kühn, anch’essa di origini lituane e prima traduttrice nel nostro paese delle poesie di Baltrušaitis. «Fu con il suo aiuto – confessa la moglie in Vita con Giovanni Amendola – che Giovanni ebbe la possibilità di raggiungermi a Vilno, per rivedermi e per discutere a voce dei nostri progetti. E sulla rivista 'Viessey' ('La Balance'), Baltrusciaitis fece pubblicare alcuni articoli di Giovanni». Fu proprio attraverso l’introduzione all’opera e la traduzione di Eva Amendola Kühn, data alle stampe dalla casa editrice di Vannicola, che Campana conobbe il lavoro poetico di Baltrušaitis. Non avrebbe potuto non esserne colpito visto quanto il poeta simbolista confessava della sua opera: «il mio mondo lirico, l’ho fatto nella solitudine della mia volontà, nel silenzio delle mie tristezze, dei miei spasimi, troppo profondi per comunicarli a qualcuno», ma con una tonalità religiosa ben diversa dal Solitario di Marradi come testimonia la poesia 'Meditazione' presente nella raccolta: «E spesso nel delirio solitario/ Nel momento della stanchezza muta,/ Sappiamo che nel tempio lontano/ Si prepara una festa non terrestre./ Nella vita ci rechiamo alla festa/ Su di un cammino lungo e polveroso,/ Con inquietudine, sotto la tempesta pesante,/ Sotto la pioggia grigia, infinita./ Con gioia nel cuore ardente/ Salutiamo la luce dell’alba,/ E la sera piangiamo e ci lamentiamo,/ Che i sogni non si realizzino mai».

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