venerdì 24 giugno 2011
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Lubiana, sera del 25 giugno 1991. Sale sul pennone la nuova bandiera della Slovenia, simbolo dell’indipendenza: la stella rossa non c’è più, sostituita dal Tricorno, il monte più alto del nuovo Stato ma anche luogo della mitologia slovena. Fa caldo, la piazza davanti al Parlamento è gremita di gente, sfila la Difesa territoriale, in pratica il nuovo esercito. Il momento è storico: parla il presidente Kucan, ex comunista, l’uomo dello strappo con Belgrado. Due Mig sorvolano minacciosi la capitale e, alle prime ore del mattino, si muoveranno i carri armati federali. È la guerra, la prima in Europa dopo quarantasei anni di pace. Ma è anche la fine della Jugoslavia socialista, che per la seconda volta nel Novecento – dopo l’esperienza della Jugoslavia monarchica dei Karagiorgevic – si sfalda. In realtà la secessione slovena e croata di vent’anni fa ha radici lunghe, già i solenni funerali di Tito del maggio 1980 fecero presentire la difficoltà del tenere insieme un mosaico complesso e fragile composto da sei repubbliche, due province autonome, quindici etnie, ventiquattro nazionalità, due alfabeti, tre religioni. Tutti gli anni Ottanta, morto il leader fondatore, icona storica della seconda Jugoslavia, si consumarono nella sistematica erosione di quella "unità e fratellanza" che ufficialmente doveva non solo tenere insieme il Paese, ma anche rimuovere gli eccessi balcanici di rancori e rivalità che la seconda guerra mondiale aveva seminato.Favoriti dalla farraginosa costituzione del 1974, i vari Stati della federazione si muoveranno sempre più per conto loro ignorando il centro federale e, quel che è peggio, andando sempre meno d’accordo. Circolava una amara battuta: se la Jugoslavia si disintegrasse, le repubbliche non se ne accorgerebbero. La stessa autogestione, una sorta di "socialismo di mercato" che avrebbe dovuto dare le fabbriche agli operai, in realtà non solo moltiplicò le burocrazie rosse (la "nuova classe" denunciata da Gilas, il grande eretico jugoslavo) producendo disastrosi risultati economici, ma germinò interessi particolaristici e corporativi che alimentarono la frammentazione finale. Frammentazione che, ben preparata dalla sbornia dei nazionalismi etnocentrici negli anni Ottanta e divenuta vera e propria guerra nell’estate del 1991, divorò gli anni Novanta in un’orgia di violenza che ebbe il suo incredibile epicentro in Bosnia, la "piccola Jugoslavia" in cui si accentuavano le contraddizioni e le complessità del Paese. Una violenza che si accanì anche contro tutto ciò che ricordava la memoria comune come simboli, monumenti e toponomastiche. Come fanno popoli così piccoli ad essere così cattivi tra di loro, si chiedono attoniti i personaggi di Balcancan, il bel film del macedone Mitrevski. Per una specie di ellisse storica, i vent’anni di convulsioni che dissolsero la Jugoslavia federale iniziarono nel piccolo Kosovo, patria dell’epica serba, già l’anno dopo la morte di Tito e qui si conclusero nel 1999 con l’intervento della Nato e l’avvio dell’indipendenza di Pristina.Oggi, a vent’anni dall’esplodere delle guerre infra-jugoslave, rimane il dolore di uno spreco storico gigantesco che ha bruciato – oltre a quasi centomila vite solo in Bosnia – l’idea stessa di un Paese, quell’antico sogno illirista di riunire gli Slavi del sud che oggi sopravvive nella cosiddetta "jugonostalgia". Uno spreco i cui costi economici ed antropologici continueranno a pesare, anche se gli odi si sono stemperati, molti – non tutti – criminali di guerra sono stati raggiunti e la Croazia si appresta a divenire il ventottesimo membro dell’Unione Europea. Problematiche rimangono le realtà della Bosnia e del Kosovo. Nella prima, nemmeno la dolcezza struggente delle sue sevdalinke può nascondere la mostruosità della posticcia costruzione statuale concepita a Dayton, fatta di due entità e di un distretto autonomo, con tredici costituzioni, quattordici governi con circa cento ministri e diverse magistrature. E uno e bino appare anche il Kosovo, tanto che poche settimane fa il ministro serbo dell’Interno, il leader socialista Dacic, ha semplicemente proposto di spartirlo tra Albania e Serbia «prima che sia troppo tardi». Insomma la disintegrazione potrebbe ancora continuare, instancabilmente, mentre perfino i censimenti fanno paura ai nazionalisti che non osano contarsi. La Jugoslavia è scomparsa dalle carte geografiche, ma la "balcanizzazione della ragione" – come la chiama la filosofa zagrebese Ivekovic – sembra persistere.
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