sabato 31 luglio 2021
La centralità della questione cosmogonica nelle opere dello scrittore e filologo britannico va messa in diretta relazione con l’atto creativo umano: lo racconterà una mostra al Meeting di Rimini
J.R.R. Tolkien appoggiato a uno dei suoi amati alberi

J.R.R. Tolkien appoggiato a uno dei suoi amati alberi - Bill Potter, Camera Press London / via www.thetreeoftales.it

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Il Silmarillion, opera alla cui stesura e revisione Tolkien attese per decenni, fu pubblicato postumo nel 1977, dopo che il figlio dell’autore, Christopher, ne aveva riorganizzato i materiali per conferire maggiore coerenza e organicità all’opera. È un testo certamente complesso, che raccoglie il materiale mitico relativo principalmente alla Prima Età del Mondo, un’epoca ben più antica di quella in cui sono ambientate le vicende del Signore degli Anelli. Si apre con un breve racconto, Ainulindalë (“La Musica degli Ainur”), incentrato sulle origini dell’universo, qui chiamato Eä. In questa cosmogonia dai toni solenni, cadenzati, la creazione è musica. Tutto ha inizio, infatti, con i temi musicali ideati da Eru Ilùvatar, il dio creatore di tutte le cose: «Esisteva Eru, l’Uno, che in Arda è chiamato Ilùvatar; ed egli creò per primi gli Ainur, i Santi, rampolli del suo pensiero, ed essi erano con lui prima che ogni altro fosse creato. Ed egli parlò loro, proponendo temi musicali; ed essi cantarono al suo cospetto, ed egli ne fu lieto». Il contributo degli Ainur, entità angeliche, è tutt’altro che passivo o meccanico: se all’inizio cantavano da soli o in piccoli gruppi, successivamente, ascoltando, «pervenivano a una comprensione più profonda, e s’accrescevano l’unisono e l’armonia». Ilùvatar chiese allora di adornare il tema principale, per farne una grande musica, ed esortò gli Ainur a farlo «in congiunta armonia» e «ciascuno con i propri pensieri e artifici».

“Armonia” è in effetti una delle parole che ricorre più frequentemente in queste prime pagine. A essa si oppone la “dissonanza” introdotta nel canto da uno dei più potenti fra gli Ainur, Melkor, destinato a diventare l’Oscuro Signore ben prima di Sauron, che lo avrebbe servito. Melkor – angelo caduto al pari di Lucifero – si isolò cercando invano di trovare la Fiamma Imperitura, lo spirito divino che sempre rimaneva con Ilùvatar. Lo muoveva la brama di «accrescere la potenza e la gloria della parte assegnatagli ». I pensieri di Melkor divennero parte della musica, introducendo una dissonanza capace di confondere alcuni dei suoi fratelli, fino al decisivo intervento di Ilùvatar. Allora Ilùvatar mostrò agli Ainur la forma assunta dal loro canto: un nuovo Mondo, Arda, nel quale era ancora riconoscibile quanto ciascuno di essi aveva concepito. Ed essi «guardavano e si meravigliavano».

La creazione come polifonia, dunque, come esito di un’armonia feconda alla quale contribuiscono suoni e motivi diversi e che suscita inevitabilmente stupore. È questo uno dei temi principali della mostra The Tree of Tales, ospitata dal Meeting di Rimini di quest’anno (20-25 agosto), che ci ricorda come proprio le riflessioni sulla creazione siano centrali nella produzione letteraria e saggistica del nostro Professore.

Più volte nelle sue opere letterarie, come pure in alcuni dei suoi interventi critici, Tolkien ricorda che l’atteggiamento più autentico davanti alla creazione è proprio quello della meraviglia. Sono pieni di meraviglia, ancora nel Silmarillion, gli elfi che marciano verso occidente. Sono colmi di stupore gli hobbit nel Signore degli Anelli, quando visitano il regno elfico di Lothlórien o la Foresta di Fangorn.

Eppure per l’uomo moderno – osserva Tolkien – non è poi così immediato fare esperienza della meraviglia. Nel saggio Sulle fiabe (On Fairy Stories) Tolkien prova a spiegarne il motivo: la “possessività”, o meglio, l’illusione di possedere ciò che ci è familiare, che di conseguenza diventa ai nostri occhi tedioso e banale. È necessario allora il recupero di una condizione perduta per purificare il nostro sguardo sul creato, per riguadagnare il gusto dello stupore. Uno strumento privilegiato può essere quella che Tolkien chiama la sub-creazione, e cioè l’esercizio dell’immaginazione e della capacità artistica che è insita nell’uomo. Dalla storia della creazione alla creazione di storie, dunque. L’uomo inventa mondi, storie e lingue, facendosi continuatore della creazione originaria. Nonostante siano opere di fantasia, i racconti possono riflettere la verità e aprirci gli occhi su di essa.

Sono le variegate foglie di un unico albero, il «fogliame innumerevole dell’Albero dei Racconti, quel fogliame che copre il terreno della Foresta dei Giorni», e consentono il recupero di una «visione chiara» che permette di vedere nuovamente le cose non come sono, ma «come siamo (o eravamo) destinati a vederle », e cioè «quali entità separate da noi stessi». Certo, le storie non sono l’unico strumento valido per questa “riscoperta” della meraviglia. «È sufficiente l’umiltà», sostiene Tolkien. Si può ripartire, allora, come sempre, anche dalle piccole cose. Dalla contemplazione che non esige un’immediata comprensione, dall’ascolto silenzioso che diventa attesa di un’eco lontana, come suggerito da un poetico passo del Silmarillion: «E si dice (...) che nell’acqua tuttora viva l’eco della Musica degli Ainur più che in ogni altra sostanza reperibile su questa Terra; e molti dei Figli di Ilùvatar continuano a prestare orecchio insaziato alle voci del Mare, pur senza capire cosa odano».

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