giovedì 7 luglio 2022
Il testo dell’allora cardinale fu scritto nel 1996 per i 100 anni della nascita del teologo francese: «Cominciare a credere significa uscire dall’isolamento ed entrare nel noi dei figli di Dio»
Joseph Ratzinger, allora cardinale, nel 2003

Joseph Ratzinger, allora cardinale, nel 2003 - Ansa

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Pubblichiamo ampie sezioni di un inedito dell'allora cardinale Joseph Ratzinger scritto nel 1996 in occasione del centenario della nascita del teologo francese Henri de Lubac. Il testo integrale è ora contenuto nel volume del filosofo Antonio Russo Antiche e moderne vie della solidarietà. Da Maurice Blondel a Papa Francesco (Unicopli, pagine 228, euro 18,00).​​​

Parlare di de Lubac a cent’anni dalla nascita è impresa alquanto ardua. Egli, spinto da un impressionante fervore e una instancabile ricerca, ci ha lasciato una produzione immensa. Ci ha dato dei contributi di storia della teologia di gran rilievo; ci ha spinto in maniera decisiva a rinnovare gli studi patristici con la grandiosa collana “Sources chrétiennes”; ha pubblicato opere fondamentali e innovative come Catholicisme (1938), Surnaturel (1946) o Corpus Mysticum (1944); infine, la sua produzione ha segnato in maniera duratura la teologia cattolica contemporanea, facendolo quasi assurgere a figura emblematica del travaglio che ha portato al Vaticano II [...].

Vorrei soffermarmi soprattutto su due ambiti tematici che dovrebbero bastare ad attestare la presenza diretta o indiretta, ma tutt’altro che rapsodica della riflessione di de Lubac nella mia opera. Nel 1936, prendendo posizione contro le tendenze individualistiche, e quindi egoistiche, del proprio tempo, de Lubac giungeva all’affermazione che « le catholicisme est essentiellement social. Social, non pas seulement par ses applications dans le domaine des institutions naturelles, mais d’abord en lui-même, dans l’essence de sa dogmatique. Social, à tel point que l’expression “Catholicisme” social aurait toujours dû paraître un pur pléonasme». Continuava, poi, il proprio discorso, sempre in chiave antindividualistica affermando che l’unità del corpo mistico di Cristo, « unité surnaturelle, suppose une première unité naturelle, l’unité du genre humaine». Da questo punto di vista ogni infedeltà « à l’Image divine que l’homme porte en lui, toute rupture avec Dieu, est de même coup un déchirement de l’unité humain » [...].

Come ho avuto modo di rilevare in varie mie opere, ad esempio Introduzione al cristianesimo, ma anche in un testo più recente, qui egli metteva fortemente in risalto, e con piena coscienza, «una legge fondamentale che risale fino alle radici più profonde del cristianesimo, una legge che in sempre nuovi modi si manifesta... ai vari livelli di realizzazione cristiana.. il “noi” con le sue strutture conseguenti appartiene per principio alla religione cristiana. Il credente come tale non è mai solo: cominciare a credere significa uscire dall’isolamento ed entrare nel noi dei figli di Dio; l’atto di adesione al Dio rivelato nel Cristo è anche sempre unione con coloro che sono stati già chiamati. L’atto teologico è come tale sempre anche un atto ecclesiale, che ha come sua una struttura sociale».

Poco più oltre, nel tirare alcune conseguenze dallo stesso e identico discorso affermavo che «la base più profonda di questo “noi” cristiano è che Dio stesso è un “noi”. Il Dio professato dal Credo cristiano non è un solitario autopensiero di pensiero, non è un Io assoluto e impartecipe chiuso in se stesso, ma è unità nella relazione trinitaria dell’io-tu-noi, così come l’essere-noi quale divina struttura dell’essere, anticipa oggi noi nel mondo, e una somiglianza con Dio si trova in linea di principio sempre riferita a questo divino “noi”» [...].

Questi ultimi testi mi danno modo di accennare a un altro ambito tematico, lungamente trattato e a più riprese da de Lubac. In particolare, nel considerare negli scritti del 1936, con rigorosa consequenzialità logica, gli aspetti sociali del dogma egli giunge, e non può non giungere, a rigettare ogni dottrina individualistica di evasione, di fuga dal mondo e dalla società. Per questo egli dice che il cristianesimo «affirme à la fois, indissolublement, pour l’homme une destinée transcendante, et pour l’humanité une destinée commune. De cette destinée toute l’histoire du monde est la préparation». Di conseguenza, in stretto legame con l’aspetto sociale della realtà cristiana, vi è anche e non meno importante un ulteriore carattere che è quello storico. Il tempo allora non è più un divenire desostanzializzato e i fatti storici non sono più dei puri e semplici fenomeni, ma degli avvenimenti, perché la volontà divina è operante in essi per condurre l’umanità verso la meta finale. Dio stesso, quindi, agisce nella storia e si rivela per mezzo di essa. E perciò «les réalités historiques ont donc une profondeur, elles sont à comprendre spirituellement, et en revanche, les réalités spirituelles sont en devenir, elles sont à comprendre historiquement. L’histoire tout entière devient, entre Dieu et chacun de nous, le truchement obligé». E questo principio, come avverte lo stesso de Lubac, «commande toute l’exégèse des Pères de l’Église», perché essi ammettono che vi è una «force spirituelle de l’histoire». E la realtà di cui si parla sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, proprio perché si è incarnata, è sia spirituale che storica; essa è non soltanto eterna, ma anche storica.

Si tratta, qui, più precisamente del senso spirituale della Scrittura. Ad esso de Lubac ha dedicato considerevoli sforzi, addirittura vari ponderosi tomi, e aveva in mente di continuare l’opera; eppure oggi sembra il più caduco tra quelli da lui approfonditi. Ma, a ben guardare, le cose non stanno proprio così. E credo di averlo adeguatamente messo in risalto in un mio recente saggio su L’interpretazione biblica in conflitto (problemi del fondamento e orientamento dell’esegesi contemporanea). In esso, e proprio nel trarre le conclusioni del discorso, affermavo testualmente: «negli ultimi cent’anni l’esegesi ha realizzato grandi cose, ma ha anche commesso grandi errori; e questi errori sono divenuti quasi dei dogmi accademici. Attaccarli è considerato da molti studiosi addirittura un sacrilegio». E invitavo di conseguenza a una nuova riflessione di fondo sul metodo esegetico e sui suoi presupposti filosofici.

Nel farlo, formulavo dei desiderata ben precisi. In particolare, scrivevo che non ci si può limitare al dominio della pura e bruta fatticità, ossia al principio dell’evidenza scientifica della metodologia delle scienze naturali, che tra l’altro è affatto necessariamente fondato sulla struttura della realtà, ma anzi al contrario se lo si assume in filosofia e in teologia ne vien fuori una insulsaggine e un controsenso. Occorre, invece, non considerare «l’esegesi in modo unilaterale, sincronico, come si fa per le scoperte delle scienze naturali... L’esegesi deve riconoscere di essere una disciplina storica. La sua storia fa parte di ciò che essa è, le posizioni che ha raggiunto deve sempre integrarle in maniera critica nella totalità della sua storia; così sarà in grado, da un lato, di riconoscere il carattere relativo dei propri giudizi; e d’altro canto sarà meglio in grado di penetrare in una comprensione reale, benché sempre incompleta, della parola biblica». E, concludevo il discorso, affermando che questa autocritica deve portare anche a «un esame delle alternative filosofiche essenziali del pensiero umano. A questo riguardo appare insufficiente considerare solo gli ultimi centocinquant’anni. Ancora, occorre introdurre nella discussione le grandi proposte del pensiero patristico e medioevale». Anzi, rilevavo che «il primo presupposto di ogni esegesi è accettare la Bibbia come un unico libro», per vederne l’intima coesione interna «che non risulta da un approccio solamente letterario». Altrimenti la Bibbia resta un libro sigillato. È necessario, allora, «comprendere... in modo nuovo che la fede è veramente quello spirito in cui è nata la Scrittura, e che è dunque anche l’unica porta per penetrare nel suo interno» [...].

De Lubac mise l’accento sulle proposte del pensiero patristico e medioevale sul terreno dell’esegesi e questo sin dai suoi primissimi scritti, soprattutto per influsso del Blondel [...]. Tra l’altro, fu proprio de Lubac che, oltre a riproporre ampiamente e con forza il senso spirituale della Scrittura [...]. Per lui la convinzione della portata obiettiva, e metafisica in fondo, del metodo scientifico è un errore che bisogna combattere. Le scienze, egli dice, vengono viste come fondate sulla struttura della realtà in quanto tale, ma si tratta di una malattia, di un «culte d’idole». Esse si limitano solo ad argomenti estrinseci, a stabilire un legame del tutto estrinseco tra le cose, sulla base del caso o della necessità, «sans faire acunement pénétrer à l’intérieur de son objet». Si è preteso costruire servendosi di esse un «système de la foi naturelle» o «foi scientifique», e di conseguenza anche una teologia e una esegesi scientifica incontrovertibile, ma il risultato egli diceva è una «manque de sens historique... philosophie rudimentarire», che ha dato luogo solamente a una «théologie mesquine».

© RIPRODUZIONE RISERVATA Un testo dell’allora cardinale scritto in occasione del centenario della nascita del teologo francese, nel 1996: «Cominciare a credere significa uscire dall’isolamento ed entrare nel noi dei figli di Dio» Il teologo e cardinale Henri-Marie de Lubac (1896-1991) In alto, papa Benedetto XVI

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