lunedì 25 settembre 2023
Lo scrittore a Torino Spiritualità riflette sul senso dell’esistenza e sull’idea dell’oltre: «Mettiamo troppo del nostro tempo nei pensieri della fine. Questa epoca ci rende avidi e freddi»
Lo scrittore islandese Jón Stefánsson

Lo scrittore islandese Jón Stefánsson - -

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Il mistero del dopo e la memoria degli assenti; questo è il filo conduttore della 19ª edizione di Torino Spiritualità, che dialoga sulla morte e sull’assenza insieme a una serie di scrittori e intellettuali, tra cui l’autore islandese Jón Kalman Stefánsson, a partire dal romanzo La tua assenza è tenebra e dalla nuova raccolta di poesie Quando i diavoli si svegliano déi (entrambi Iperborea, rispettivamente 2022 e 2023), guardando alle vite di chi è venuto prima di noi. Jón Kalman Stefánsson mette in versi le inquietudini e i sogni della contemporaneità, le piccole cose come il caffè che sale, ma soprattutto affronta le grandi domande dell’uomo: la vita, l’amore, il senso ultimo dell’esistenza, il potere della poesia e della letteratura, attraverso la quotidianità in rapporto alle tragedie del nostro tempo, parlando dell’irruzione del dolore nelle nostre vite e di amore. Le poesie, scrive, sono «notizie dalla vita» che la morte non può sconfiggere; «la morte è come il cielo, la vediamo ovunque andiamo», per questo «talvolta dobbiamo fare affidamento su Dio».

Questa edizione di Torino Spiritualità riflette sulla morte e l’assenza. Cito da La tua assenza è tenebra: «Scrivi. E non dimenticheremo. Scrivi. E non saremo dimenticati. Scrivi. Perché la morte è solo un altro nome per l’oblio». La scrittura è un antidoto alla morte e all’assenza?

Credo che possa essere così, sì. La letteratura, la parola scritta della letteratura, ha naturalmente molte facce, il suo scopo è al tempo stesso imperscrutabile e definito, o semplicemente non si può comandare. Ha la sua volontà. E questo è uno dei suoi punti di forza. Lo si vede in tante opere di grandi scrittori, è lì come un filo conduttore. Credo che nelle migliori poesie e nei migliori romanzi si possa trovare qualcosa, una forza, una saggezza profonda, parole che si trasformano in musica, a volte tutto allo stesso tempo, che supera la morte, l’oblio, e quindi può dare al lettore un po’ di conforto, o quella sensazione che qualcosa nella vita sarà sempre più forte della morte.

Spesso ci sono due visioni della morte: chi crede porti a cambiare e chi no. Uno dei capitoli de La tua assenza è tenebra s’intitola: “Sei morto, quindi sei andato oltre”. La morte insegna qualcosa?

Non sappiamo con certezza cosa sia la morte e probabilmente – speriamo forse – non lo scopriremo mai del tutto; ma l’assenza dei morti, il loro silenzio, il rimpianto e il senso di perdita che spesso lasciano dietro di sé, possono renderci più sensibili nei confronti della vita e anche un po’ migliori. Molto di più non possono fare, perché sono messi a tacere dalla morte, giacciono inermi nell’oscurità dell’ignoto. Ma il loro silenzio, i loro rimpianti, possono ricordarci cosa dobbiamo fare finché possiamo, come dobbiamo vivere: amare ed essere amati su questa terra, come diceva Carver.

In Crepitio di stelle lei scrive che il silenzio riempie la terra, la dimora dei morti, di un’inquietudine intollerabile: qual è il suo rapporto con l’aldilà?

Franz Wright, un poeta americano, scrive in una sua poesia: «Come si fa / a morire? / Chi mai mi insegnerà. / Il mondo / è pieno di persone / che non sono mai morte». Questi versi meravigliosi rivelano il semplice fatto che è quasi impossibile sapere qualcosa sulla morte, perché non c’è nessuno che l’abbia vissuta. E coloro che l’hanno vissuta non sembrano essere più in grado di contattarci. Quindi, l’unica cosa che abbiamo sono supposizioni, dottrine, speranze che forse sono più o meno basate sulla paura, sulla disperazione e sui sogni. Se credo che possano stare in pace, non posso crederci, ma solo sperare. Ma se possono osservare noi che ancora viviamo, allora temo che non abbiano tanta pace, e temo che molti di loro siano pieni di rimorsi, di autocritica, perché loro, proprio come noi che stiamo ancora vivendo, sono responsabili dei tempi di ebollizione globale che stiamo vivendo.

Perdere qualcuno può significare perdere sé stessi. La vita là fuori c’è ancora, ma non è più la stessa. Perché la morte è spesso ancora un tabù nella nostra società?

Una delle ragioni è il capitalismo, che ci rende avidi, freddi nei confronti della sofferenza altrui. Crediamo che la crescita economica sia una misura della felicità e del benessere della nostra società. Uno dei motivi per cui la morte e il lutto sono un tabù è che disturbano la misura della felicità, la crescita economica, perché i modi di trarre profitto dal lutto sono limitati. Scrive Szymborska: «Non c'è vita / che almeno per un attimo / non sia stata immortale. / La morte / è sempre in ritardo di quell’attimo».

Uno dei motivi per cui la morte si innervosisce di fronte alle poesie è che semplicemente non riesce a gestirle. Il suo alito freddo, le sue mani gelide, non hanno alcun effetto su poesie come questa.

Nel suo ultimo libro, Quando i diavoli si svegliano dèi, lo sguardo del poeta si rivolge all’infinito e all’eterno. La poesia può creare un dialogo tra vivi e morti?

Credo che la poesia possa e sappia creare un dialogo tra tutto ciò che si può pensare. Purtroppo sono pochi quelli che leggono poesia. È comune credere che le poesie siano difficili, serie, solenni, e che quindi non possano far parte della nostra vita quotidiana, ma la poesia è esattamente come la vita: seria, gioiosa, saggia, infantile, imprevedibile, semplice, complessa.

Si parla spesso di vita e morte in opposizione e non in continuità. Lei scrive: «Devi dare un titolo alla tua vita, non alla morte».

Non possono esistere l’una senza l’altra. Nei nostri sogni, e in tante religioni, la morte non è una fine, ma una porta verso l’eternità. Forse è vero, ma forse è anche un’ingenuità. Nessuno lo sa. L’unica cosa certa è che abbiamo questa vita, questi anni qui su questo pianeta, e credo sia moralmente sbagliato non fare del proprio meglio per usarla in modo positivo per sé stessi, per chi ci sta accanto, per ciò che ci circonda e per il mondo nel suo complesso.

In “Per finire” Montale scrive: «La mia vita, i miei fatti, i miei nonfatti. È già troppo vivere in percentuale. Vissi al cinque per cento, non aumentare la dose». Lei scrive: «Sette per cento di vita, novantatré per cento di morte». Il tema è: vivere o scrivere?

Vivere per scrivere o scrivere per vivere: c’è differenza? Per me è la stessa cosa, percentuali o meno. Le mie opere sono la mia vita e la mia vita è le mie opere. Però è più complesso di così, ed è questo il bello: non si può mai afferrare tutto, non c’è un abbraccio abbastanza grande per tutto, ci sarà sempre qualcosa che sfugge, che non si riesce a cogliere, che non si conosce. La vita non si ferma mai, si rifiuta di farsi definire. È come il tempo islandese: imprevedibile, in continuo cambiamento.

Lei ha scritto: «Il dolore è il ricordo che mi lega alla morte e tu alla vita». La morte è anche (o soprattutto) di chi resta?

A volte ricordo chiaramente quando e dove ho scritto le mie poesie; questa è una di quelle. Sentivo che i morti, quelli che ho perso e mi mancano, erano lì, come se mi parlassero, senza parole, e sentivo fortemente che la mia vita era impossibile senza averli dentro di me, che non potevo vivere senza la loro morte, senza la loro compagnia.

Qual è il suo rapporto con la fede?

Dubitare, sperare, chiedersi. Il bisogno profondo è di non rispondere alla domanda, piuttosto di cercare. Questo è forse il senso della vita.

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