mercoledì 15 aprile 2009
Il noto intellettuale e critico letterario è da alcuni anni preda di demenza senile, ma la famiglia si rifiuta di lasciarlo morire.
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Correva l’anno 2003 quando dalle casse dell’Archivio Federale tedesco contenenti le schede di undici milioni di iscritti alla Nsdap, il partito nazista, saltò fuori anche quella intestata al signor Walter Jens, classe 1923. Filologo, critico letterario e traduttore poco noto Italia, l’amburghese ha conteso fino al 2004 la palma dell’intellettuale portabandiera della cosiddetta 'istanza morale' della Germania post-hitleriana a personaggi come Habermas e Grass: Jens è stato il modello di 'combattente democratico' per eccellenza, almeno finché non si è scoperto il 'segreto', la 'macchia bruna' taciuta per decenni. Quello stesso segreto che Grass avrebbe rivelato tre anni dopo. Diversamente da quest’ultimo, la vita di Jens, a partire da quel 2003, ha preso un altro corso, drammatico e proprio per questo degno di essere raccontato: passarono pochi mesi dalla scoperta del suo passato filo-nazista quando lui, retore impareggiabile, venne preso da una forma di demenza caratterizzata da regressione allo stadio infantile e da completa assenza di memoria. Da quel momento, quello che fino ad allora era stato parte vivace del folto gruppo di 'influenti' ottantenni tedeschi (Schmidt, von Weizäcker, Dahrendorf, Enzensberger e Walser, oltre ai citati Habermas e Grass e a Joseph Ratzinger) è diventato 'altro'. Quel qualcos’altro che lui stesso alcuni anni prima avrebbe giudicato indegno di essere considerato uomo e dunque da accompagnare senza esitazione alla 'morte degna'. Il fatto che proprio Jens sia stato uno dei primi intellettuali a giustificare e promuovere l’eutanasia (insieme ad Hans Küng scrisse nel 1995 il libro Menschenwürdig sterben, Morire con dignità, ora ripubblicato), letto oggi, nella sua condizione di essere 'indegno', potrebbe apparire ora come un crudele gioco del destino. Dei lunghi silenzi e delle imprevedibili azioni di cui è fatta la vita di Jens da cinque anni a questa parte si sono fatti carico in particolare sua moglie Inge ed il figlio maggiore, Tilman. Conoscendo bene quale fosse la posizione di Walter circa la 'dolce morte' («un malato che non riconosce più i propri cari», scrisse, «non è più da considerarsi uomo»), i familiari hanno deciso di affrontare con decisione la questione e si sono rifiutati di chiedere l’eutanasia. Una storia, questa di Jens, che non poteva non sollevare in Germania un dibattito pubblico. Soprattutto dopo che Tilman ha ritenuto necessario raccontare la storia degli ultimi anni vissuti in famiglia con il padre demente. Ne è nato un libro commovente, da poco edito in Germania, Demenza. Congedo da mio padre (Demenz. Abschied von meinem Vater, Gütersloher Verlagshaus, Gütersloh, pp. 142), rispetto al quale il giudizio di alcuni intellettuali non è stato tenero: «Un libro indelicato e di cattivo gusto», così l’ha definito il critico letterario Reich-Ranicki. Più articolata e per certi versi sorprendente è la posizione del citato Küng, che oltre a lanciare un 'appello' pubblico indirizzato a giuristi, medici, politici, chiese e media affinché contribuiscano tutti a promuovere l’«arte di morire» con dignità (e in questo non si distanzia dalle posizioni espressa nel citato libro scritto insieme allo stesso Jens), dalla colonne del Frankfurter Allgemeine Zeitung ha ammesso di essersi meravigliato, visitando l’amico, per la posizione «valorosa» e «piena di comprensione» della moglie di Walter, chiamata a sopportare la «tragica situazione», fino ad ammettere che in casi come questo, nei quali si è in presenza di «soli dolori spirituali, e non corporali», «null’altro si possa fare se non rimettersi all’accadere di un’istanza superiore». Certo Tilman Jens nel suo libro prende le mosse da una propria, dura ed indimostrabile tesi, secondo la quale il padre avrebbe 'scelto' la demenza per nascondere l’incapacità di sopportare le vergogna della celata appartenenza alla Nsdap. È altrettanto vero che da molte pagine del libro erutta vigoroso quello che qualcuno ha detto essere il frutto di un piuttosto comune 'conflitto generazionale': il rifiuto del padre. Eppure Tilman dice molto di più, quel 'di più' che non tutti sono disposti a cogliere. Il 'congedo', infatti, non è dal padre tout court. Piuttosto, è dal 'vecchio' homo politicus, dal farisaico moralizzatore incapace di raccontare le proprie responsabilità sepolte nella nebbia del passato. Ciò che resta è il 'nuovo' Walter, con la sua umanità, anche se demente. Le pagine finali di questo libro non fanno altro raccontare allora, oltre ai falliti tentativi di guarigione e alle fatiche, lo stupore di un figlio che osserva il proprio padre lieto e giocoso come un bambino accanto ad alcuni conigli (lui che da retore odiava gli animali) nella fattoria della sua nuova badante, una semplice e robusta contadina di nome Margit che di sera recita con lui il Padre Nostro. Un figlio che ricorda distintamente quel giorno d’inizio 2007, quando nel soggiorno invaso dal profumo delle mele appese all’albero di Natale sente Walter dire d’improvviso: «La mia vita è stata lunga e piena. Ora voglio andare». A quelle parole finalmente chiare e sensate seguirono minuti di silenzio, senza lacrime, neppure da parte di Inge. Poi, d’improvviso, l’imprevisto. Il padre aggiunge sorridendo, pensando evidentemente alla vita: «Ma è davvero bella!». Parole pesanti, decisive. «È possibile che parli così un uomo deciso a morire?», si chiede Tilman, «Mia madre, mio fratello ed io in quel momento ci siamo uniti nella decisione di annullare il mandato d’aiuto attivo alla sua morte». Da quel giorno il mistero della vita di Walter Jens continua. E quello che era un raffinato professore universitario, grazie alle cure e alla 'scuola' di Margit, la quarantenne contadina sveva, legge oggi lento e fiero di fronte ai propri cari: «Che cos’è questo? È un cavallo».
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