venerdì 28 marzo 2014
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​A qualcuno sembrerà molto di più, ad altri molto meno. Eppure è già passato un anno dalla morte di Enzo Jannacci (era il Venerdì Santo del 2013). Cinquant’anni da quando incise El portava i scarp del tennis, targata marzo 1964. Avete mai pensato, nell’ultimo anno, a quante canzoni ricordate di Jannacci? Tre, cinque, dieci? I suoi grandi ammiratori arrivano a trenta o cinquanta. Peccato che Enzo nella sua carriera ne abbia incise più di duecentotrenta. Ognuna con la sua storia, i suoi aneddoti, i suoi brandelli di vita reale attaccati prima, durante e dopo. I suoi detto e non detto. Ad analizzarle e raccontarle una ad una ci pensa Roba minima (mica tanto) di Andrea Pedrinelli, collaboratore di questo giornale e uno degli ultimi giornalisti musicologi. Se pensate siano cortesie “di bottega”, smettete pure di leggere ma andate in libreria e sfogliate questo libro. Apritelo a caso e giudicate da quello che leggete. Un esempio: pagina 149. Si parla dell’album del 1983 Discogreve, uno dei meno conosciuti e più confusi di Jannacci. Ma dentro a quelle brutte canzoni infarcite di pop elettronico, Pedrinelli salva Il maiale. E ci svela una storia importante. «Qui Jannacci canta la malasanità che secondo lui ha ucciso suo padre. Il maiale è il medico cui è meglio non rivolgersi più». Il simbolo di quella malasanità già affrontata in un capolavoro, molto più conosciuto, come Natalia. Enzo adorava suo padre («È morto stringendo la mia mano in ospedale mentre gridavo, inascoltato, la mia diagnosi») e non si è mai perdonato di non essere riuscito a salvarlo. Basta questo assaggio per capire la qualità anche umana di questo lavoro. Un’opera meticolosa, che non cede a facili lusinghe ma che entra nelle pieghe del cantautore e dell’uomo Jannacci, la cui vita artistica e umana è stata un susseguirsi di alti e bassi; di risate e di pianti. Leggendo questo lavoro scoprirete di quando Enzo cantò la strage di piazza Fontana (Una tristezza che si chiamasse Maddalena), della sua amicizia con Beppe Viola e persino di quando, giovanissimo, tentò di conquistare il mondo con una band che annoverava anche Adriano Celentano, Luigi Tenco e Giorgio Gaber. Del fatto che non amava il cinema, mentre il cinema lo cercava in continuazione. E che, oltre a fare sul serio il medico in America e in Italia, «ha aiutato decine di ragazzi a uscire dalla droga». Sorriderete leggendo che la famosissima E la vita la vita, cantata con Cochi ne Renato, non la voleva nessuno. Scoprirete brani che ignoravate. O canzoni che amate, raccontate in maniera nuova. Leggerete di quante volte Enzo ha polemizzato con la “sua” sinistra, arrivando anche a cantare in E allora concerto il fallimento del Sessantotto. Impossibile raccontarvi quante cose troverete nell’analisi-racconto di oltre duecentotrenta canzoni. Ma un elemento incontrerete spesso: l’amore di Jannacci per gli ultimi. Per i giovani senza futuro, per i disperati, per i diseredati. Per le vittime. «Come ho detto nel caso di Eluana Englaro, una vita va salvata sempre. Prima la si accoglie e la si rianima e poi magari si gioca con il diritto». La chiave per capire il percorso di Jannacci, Pedrinelli la indica subito, svelandoci quello che Enzo gli disse una volta: «Io scrivo perché la mia vita mi ha insegnato certi valori. Perché mio padre mi ha insegnato che se l’egoismo se ne andasse saremmo tutti angeli. E insegnanti di angeli. Parole come pietre, che sono le mie regole. E anche i pilastri dei miei testi. Perché con la coscienza non si traffica. Mai».
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