sabato 4 novembre 2023
Nel romanzo “La suite di Giava” lo scrittore olandese, che riceverà a La Spezia il Premio Chatwin, fa rivivere i luoghi in cui hanno vissuto i genitori missionari
Lo scrittore olandese Jan Brokken

Lo scrittore olandese Jan Brokken - WikiCommons

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«In un mattino di tarda estate sento alla radio un pezzo per pianoforte di una bellezza eccezionale, che s’intitola “The Gardens of Buitenzorg”, dalla Suite di Giava di Leopold Godovskij». Già dall’incipit il nuovo romanzo di Jan Brokken si rivela pilotato dal caso, o piuttosto dal destino. Infatti quei giardini di Buitenzorg, sconosciuti alla maggior parte della gente, trasportano subito lo scrittore olandese in Indonesia, una terra cui si sente particolarmente legato non solo per averci viaggiato, ma perché i suoi genitori vi hanno vissuto da giovani sposi. Molto popolare anche da noi, soprattutto per il best seller Anime baltiche, Jan Brokken hai questio giorni un un fitto calendario italiano per presentare La Suite di Giava (Iperborea, pagine 236, euro 17,50) . E a La Spezia il 18 riceverà il premio Chatwin, dedicato a grandi personalità della letteratura di viaggio.

«Il tema della Suite di Godovskij – ci racconta l’autore – evoca il fascino di una cultura esotica, quella indonesiana, di cui il grande pianista e compositore ebreo di origine russa nato in Lituania si era innamorato, così come è successo a mia madre che nel 1935 ha seguito mio padre, pastore protestante, in missione a Giava. Io sono nato dopo il loro ritorno in Olanda, nel 1949, e in casa non si parlava spesso dei loro anni laggiù, anche perché l’ultimo periodo era stato tremendo: durante la guerra sono stati internati in un campo giapponese coi miei due fratellini nati là. La loro esperienza in Indonesia è stata però tramandata grazie alle lettere che mia madre scriveva a sua sorella e che la zia mi ha affidato dopo la sua morte. Le avevo accantonate in attesa del momento giusto, che si è presentato sotto la suggestione dell’ascolto della Suite di Giava e da qui è nato il mio romanzo imperniato sulla vita della giovane Olga».

Sono lettere affascinanti, che rivelano una personalità brillante, intelligente e aperta al nuovo mondo: «Ovunque mi giri tutto è diverso – scriveva –. Ogni sguardo mi stupisce e vorrei seguire ogni giavanese che mi passa davanti».

«Senza quelle lettere lei sarebbe rimasta una sconosciuta per me. Scriveva d’amore, della gioia di viaggiare, della natura che guarisce tutti i dolori, anche quello della solitudine. Era una giovane donna straordinaria, quasi un’avventuriera: nelle foto a cavallo tra le montagne di Celebes – oggi Sulawesi – sembra una Karen Blixen in Indonesia. Ma era anche un’appassionata studiosa di quella cultura: a differenza di mio padre ha imparato tutte le lingue indonesiane, anche quelle con alfabeti diversi. E c’è il legame con la musica: era una buona pianista, e in chiesa suonava l’organo».

Il loro trasferimento era di carattere missionario?

«È molto strano il percorso spirituale di mio padre. Veniva da un ambiente operaio, marxista e ateo. A diciassette anni è entrato in contatto con il cristianesimo protestante e col Vangelo, tutto un nuovo mondo di idee e credenze, e ha deciso di studiare teologia all’Università di Leyda. Dopo tre anni, però, ha incominciato ad andargli stretta la mentalità calvinista, e approfittando del fatto che l’Università di Leyda aveva il più grande Dipartimento d’Islamologia in Europa (le Indie Olandesi contavano più di duecento milioni di sudditi musulmani!) si è specializzato sull’Islam ed è stato destinato in Indonesia per fare ricerche sui movimenti di conversione islamica. In effetti c’erano parecchie conversioni al cristianesimo perché i pellegrini indonesiani che si recavano alla Mecca tornavano delusi, essendo stati maltrattati e derubati. Nel libro rievoco la figura del veggente La Galiti che convinceva i pellegrini delusi a seguire Gesù invece di Maometto. Diversamente da quanto si crede, l’Islam Indonesiano era violento, le rivolte scoppiate poi contro il potere coloniale olandese erano già chiamate “Jihad”. All’inizio della repubblica indipendente la Costituzione garantiva la libertà religiosa a tutti i culti presenti nella regione, ma a poco a poco i grandi gruppi musulmani si sono radicalizzati e oggi manifestano violentemente contro l’Occidente e soprattutto contro lo stile di vita occidentale. Nei miei viaggi ho visto montare l’integralismo dovunque, in Africa, in Medio Oriente, in Asia, tranne che a Bali, dove l’induismo è vissuto come comunione con la natura e con tutti i riti».

Il veggente La Galiti, il compositore Leopold Godovskij, il fondatore dell’Orto Botanico di Buitenzorg Kaspar Reinward e molti altri affascinanti personaggi rendono anche questo suo libro ineguagliabile per l’intreccio di arte, scienza, storia e tanta curiosità e amore per l’essere umano. Non per nulla riceve il premio “Chatwin- Una vita di viaggi e passione letteraria”. Qual è il suo metodo?

«Amo raccontare storie di vita. Ad esempio, ero a Budapest, a cena con un’anziana traduttrice. Mi ha raccontato che sua madre aveva assistito all’ultimo concerto dato da Bela Bartòk a Budapest nel 1940 prima della sua fuga negli Stati Uniti. Suonò insieme alla seconda moglie, pianista, e tutto il pubblico era in lacrime perché si sapeva che dovevano fuggire perché la moglie era ebrea. La traduttrice aveva ancora la locandina del concerto, conservata da sua madre. Ecco una storia per me. L’ho scritta la notte stessa, e per completarla il mese prossimo tornerò a Budapest e visiterò la casa di Bartòk, morto in USA nel ’45 povero, solo e quasi dimenticato. E’ così che lavoro. Devo aggiungere che è Claudio Magris ad avermi suscitato il desiderio di andare a Budapest, col suo capolavoro Danubio. Anche lui ha ricevuto il premio Chatwin e sono fiero di questo legame».

Magris è uno dei suoi modelli letterari?

«Il mio lavoro è stato spesso paragonato a quello di Chatwin, in un certo senso seguo il suo cammino, perciò sono particolarmente felice di questo premio, e ammiro moltissimo anche Magris, ma ha un approccio accademico che non mi compete, io cerco di più l’epos nelle mie storie».

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