mercoledì 26 luglio 2017
La scrittrice tatara racconta le ragioni dello straordinario successo della sua opera prima, edita in 24 lingue. Narra la storia di Zuleika, deportata in Siberia e capace di costruire amore
Dalla deportazione all’amore, l’odissea tatara di Guzel’ Jachina
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All’inizio sembra di stare in una fiaba: c’è una contadinella dagli immensi occhi verdi e dalle trecce nere che di notte esce furtivamente dalla sua capanna portando offerte di cibo per propiziare gli spiriti del bosco. È lei la protagonista di Zuleika apre gli occhi (Salani, pagine 496, euro 18,90), romanzo d’esordio e caso letterario tradotto in 24 lingue, della quarantenne Guzel’ Jachina, che ha saputo intrecciare amabilmente il respiro dei grandi romanzi russi al folklore della sua terra d’origine, il Tatarstan. I tatari, o tartari che dir si voglia, sono una delle minoranze etniche da più tempo integrate nell’impero russo: il Gran Khanato di Kazan fu infatti conquistato nel 1552, e da allora i tatari hanno fuso felicemente le due culture. La pacifica convivenza si è però infranta nel 1930, quando Stalin ordinò la 'dekulakizzazione', cioè la deportazione in massa dei kulaki, quei contadini liberi che ancora coltivavano in proprio qualche orticello. «La mia nonna materna da bambina fu deportata in Siberia con la famiglia», ci racconta l’autrice, «e mi raccontava le terribili peripezie che aveva vissuto: il lungo viaggio stipati nei treni merci, la traversata dei fiumi sulle chiatte, le strategie di sopravvivenza quando si trovarono nella taiga siberiana a costruire un insediamento senza attrezzi e senza viveri. Quando mia nonna è morta ho pensato di trasporre in un romanzo le sue drammatiche avventure, rimpiangendo di non aver ascoltato più attentamente la sua storia. Per colmare le lacune ho fatto molte ricerche su quel tragico periodo, durato fino al 1946, quando ai tatari, ormai decimati, fu concesso di rientrare nella loro patria». Nella prima parte del romanzo, Zuleika vive schiavizzata dal marito e dalla suocera, sempre docile e rassegnata ai dettami islamici della sottomissione femminile. Quando arrivano le guardie comuniste ad arrestarli, il marito resiste e viene ucciso, quindi comincia per lei una nuova vita, perché perfino da deportata è in un certo senso più autonoma. Nel lungo viaggio verso la Siberia, che occupa la parte centrale del romanzo, incontra un eterogeneo gruppo di prigionieri e fra loro, nonostante le differenze culturali e sociali, s’instaura la solidarietà, in particolare col professor Liebe, un famoso chirurgo tedesco impazzito per lo choc della rivoluzione; sarà proprio lui a rivelarle che è incinta, in seguito all’ultimo brutale amplesso del marito.


L’ultima parte del romanzo inizia con l’insediamento in Siberia in condizioni proibitive e la nascita dell’adorato Jusuf. La maternità diventa la ragione di vita di Zuleika, terrorizzata che il piccolo possa morire, avendo perso in passato delle figlie neonate, così quando non ha abbastanza latte si taglia i polpastrelli per nutrirlo col suo sangue. A questa eroina inconsapevole, che unisce una strenua forza di volontà a una bontà disarmante, l’autrice fa dono di un amore imprevedibile: Ignatov, il soldato russo che guida la spedizione, lo stesso che aveva ucciso suo marito, «la fa sentire di miele», ma il figlio resta sempre al primo posto, e le cose si complicano. Passioni contrastate e rivalità politiche, la forza della natura e la tenacia umana: Guzel’ Jachina orchestra tutti i grandi temi del romanzo classico con uno stile narrativo accattivante, quasi confidenziale, come se si rivolgesse a quell’anima semplice della sua protagonista. Nata a Kazan nel 1977, figlia di un ingegnere e di una dottoressa, Guzel’ Jachina dopo aver frequentato il liceo artistico si è laureata in Lingue e letterature straniere, con specializzazione in tedesco, e per scrivere la storia di sua nonna si è iscritta a una nuova facoltà: «Siccome avevo difficoltà a impostare il romanzo, ho pensato di scrivere la sceneggiatura per un film. Mi è sempre piaciuto il linguaggio cinematografico, e mi sono iscritta alla facoltà di cinema di Mosca, dove ho imparato le tecniche più adatte non solo alla sceneggiatura, ma al romanzo cui aspiravo, quindi ho abbandonato l’idea del film. Ora però, dopo il grande successo del libro, arriverà davvero sullo schermo: ho venduto i diritti per una serie televisiva in otto episodi. Comunque nel romanzo ho mantenuto uno stile cinematografico, che si affida all’immagine. Ad esempio, l’atmosfera fiabesca dell’inizio volutamente non fa capire che ci troviamo nel 1930, sembra un tempo arcaico, leggendario, ed è un aspetto determinante del romanzo, per fare da contrasto con la brutale irruzione della Storia, rappresentata dalle guardie sovietiche che arrivano per cancellare quel mondo». Le inserzioni della terminologia sovietica e le tracce lessicali tatare, soprattutto riguardo all’abbigliamento e alla gastronomia tradizionali, arduo banco di prova per l’ottima traduttrice Claudia Zonghetti, sono per l’autrice una caratteristica imprescindibile: «La mia priorità era di amalgamare nel libro le tre culture che mi hanno formato», spiega, «cioè quella tatara e quella russa, compresenti fin dalla prima infanzia, con l’aggiunta della cultura tedesca, scelta all’Università, rappresentata nel personaggio del professore, che non a caso si chiama Liebe, Amore». Il titolo Zuleka apre gli occhi rappresenta bene l’evoluzione della protagonista, che all’inizio del romanzo sembra non avere consapevolezza di sé, ma a poco a poco scopre di avere molte risorse e le valorizza mettendosi a disposizione degli altri. «La frase del titolo compare quattro volte nel romanzo. La prima quando Zuleika si trova al buio, poi in situazioni di crescente chiarezza. Volevo mostrare metaforicamente il percorso di autocoscienza della protagonista». La stessa metafora compare nell’antica fiaba orientale del Parlamento degli uccelli, raccontata da Zuleika al figlio. Gli uccelli in cerca di un re attraversano lande di sofferenza pur di giungere al mitico Semrug, il più fulgido degli uccelli, e chi riesce ad arrivare fino alla sua eccelsa dimora scopre di essere lui stesso Semrug, «che era uno ed era tutti insieme».

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