sabato 7 luglio 2018
Il presidente dell’Accademia della Crusca: «Storia e raffinatezza senza eguali. Non ha senso la scarsa stima che spesso ne hanno famiglie e politica»
Claudio Marazzini

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Ci sono persone che scrivono all’Accademia della Crusca esigendo risposte perentorie sui dubbi che le attanagliano nell’uso della lingua italiana o condanne definitive su quelle che giudicano inaccettabili derive del modo di scrivere o di parlare: i pronomi “lui” e “lei” in funzione di soggetto (al posto di “egli” ed “ella”), “gli” al posto di “loro”, l’uso del “che” polivalente eccetera. Il presidente della più antica e prestigiosa accademia linguistica del mondo, però, è consapevole del fatto che molto spesso non sono possibili responsi a senso unico. Claudio Marazzini, da quattro anni alla guida della Crusca, sa bene che bisogna sempre contemperare la norma (per sua natura rigida e prescrittiva) con l’uso (tendenzialmente mobile e variabile), e che quest’ultimo non può essere ignorato neppure dai grammatici e dai linguisti. Ordinario di Storia della lingua italiana all’Università del Piemonte Orientale (sede di Vercelli), Marazzini ha da poco pubblicato presso Rizzoli un saggio, vivacemente combattivo, dal titolo L’italiano è meraviglioso. Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua (pagine 256, euro 17,00). È un volume prezioso, perché non è tanto o non solo un repertorio di usi “giusti” e “sbagliati” del nostro idioma (c’è anche questo, ed è una parte molto interessante), quanto soprattutto un testo che affronta importanti aspetti di quella che dovrebbe essere un’efficace “politica culturale” centrata sulla difesa e sulla promozione dell’italiano. Mentre – accusa Marazzini – gli orientamenti politici dei governi e dei ministri che si sono succeduti negli ultimi anni sono risultati ondivaghi e altalenanti.

Perché l’italiano è “meraviglioso”?

«Perché ha una storia diversa da quelle delle altre lingue europee, essendo fiorito ben prima che ci fosse lo Stato nazionale. Sviluppatosi nel Medioevo come idioma popolare sulla base di un latino che non si parlava più, ha poi avuto uno straordinario sviluppo nel campo letterario, tanto da diventare presto la lingua europea più colta e raffinata, non a caso assai amata all’estero».

Però oggi sembra che i primi a non conoscere l’italiano siano spesso gli stessi italiani. Come mai?

«Certamente non sempre si parla e si scrive un buon italiano. Tuttavia non si può non tenere conto di un fenomeno: la scolarizzazione di massa, che si è affermata nel periodo che va dal secondo dopoguerra alla fine degli anni Sessanta. Il linguista Tullio De Mauro si chiedeva se fosse maggiormente auspicabile un Paese in cui “pochissimi” parlassero “bene” o non piuttosto un Paese in cui “molti” parlassero “benino”. E propendeva nettamente per la seconda soluzione, che è appunto quanto si è realizzato in Italia. La scuola di massa è per sua natura inclusiva e dunque non può non abbassare l’asticella, ma determina un beneficio sociale diffuso che è certamente una conquista di civiltà».

La scuola oggi è in grado di mettere in atto strategie efficaci per insegnare l’italiano?

«Ci sono tanti bravi insegnanti che ce la mettono tutta, ma non sempre le politiche calate dall’alto li aiutano nel loro arduo compito. Prendiamo ad esempio le controverse prove Invalsi. Si tratta di test standardizzati funzionali a quel controllo che uno Stato è chiamato a esercitare sulle istituzioni periferiche. Al tempo stesso, però, oggi siamo nella scuola dell’autonomia, per cui ogni singolo istituto ha diritto (e anzi è chiamato a farlo) di strutturare percorsi didattici tagliati a misura della realtà geografica, sociale, economica, culturale in cui è inserito. Ecco, mi sembra che queste due spinte, quella dell’autonomia (spesso sbandierata dal ministero come la panacea di tutti i mali) e la necessità di direttive condivisi a livello nazionale, non siano sempre bene armonizzate nella politica del Ministero. Ma il problema per cui a scuola non si impara bene l’italiano è soprattutto un altro».

Quale?

«La scarsa stima che le famiglie e spesso la stessa politica sembrano avere della nostra lingua. Quanti sono davvero convinti che una buona conoscenza dell’italiano sia importante ai fini della realizzazione professionale? Temo che oggi siano molti di meno che vent’anni fa. Un tempo l’insegnante di italiano era, all’interno del consiglio di classe, il più importante, il più autorevole. Ora non è più così. E i ministri dell’Istruzione degli ultimi governi si sono fatti promotori di iniziative molte volte nefaste».

A che cosa si riferisce?

«Ad esempio al cosiddetto “Clil” (in inglese “ Content and language integrated learning”), per cui alcune discipline (come, poniamo, storia, matematica o scien- ze naturali) vengono insegnate in inglese, spesso da insegnanti con una limitata conoscenza di questa lingua: all’inizio della sperimentazione si era parlato, come requisito per svolgere il Clil, del possesso di un livello C1 o C2 (cioè dei livelli di conoscenza professionale di una lingua straniera), poi si è ripiegati sul livello B2... Così si impoverisce la qualità della didattica e, soprattutto, passa il messaggio che la cosa più importante è conoscere l’inglese, prima ancora che le altre materie. Il Clil rappresenta un esempio della deliberata decrescita qualitativa a cui è soggetta la didattica nella scuola italiana, sotto la pressione di un mal riposto culto dell’inglese, concepito come lingua totalizzante e unico strumento culturale degno di attenzione. È anche discutibile che si sia deciso di varare in università italiane interi corsi di laurea le cui lezioni si tengono in inglese (anche qui, peraltro, non so con quale preparazione linguistica dei docenti). È come un cane che si morde la coda: se tu abolisci l’italiano all’università, già a scuola gli studenti sono portati a ritenere che non sia importante studiarlo. Ovviamente una buona conoscenza dell’inglese nel mondo di oggi è fondamentale, ma non si capisce perché essa debba andare a discapito dell’italiano».

Il vero nemico è dunque l’inglese?

«Non tanto l’inglese, quanto la nostra gratuita esterofilia, che è sinonimo di provincialismo. Perché dire street food anziché “cibo di strada”? competitor al posto di “concorrente”? endorsement e non “sostegno”? Ho intitolato uno dei capitoli del mio libro “Scansare gli anglismi inutili”».

Negli altri Paesi europei come vanno le cose?

«Non bisogna pensare che la situazione dell’italiano di oggi sia sostanzialmente diversa da quella di altre lingue. Tutte le lingue d’Europa, in particolare quelle romanze, si trovano a fare disperatamente i conti con una prevalenza universale e quasi dittatoriale dell’inglese. Il problema è comune, ma le risposte sono diverse. I nostri ultimi governi, come dicevo, non hanno brillato particolarmente per lungimiranza nel campo della difesa e della promozione dell’italiano».

Che cosa andrebbe fatto?

«La pervasività dell’inglese è un problema analogo a quello della globalizzazione, la quale appiattisce tutti quanti sulla base di un’utopia universalistica che poi di fatto non dà i risultati sperati, anche se continuiamo ad ascoltare la nenia sui grandi vantaggi che possono venire da ogni forma di globalizzazione. Questo è un punto nodale. La globalizzazione è certamente un dato di fatto. Nessuno potrebbe cancellarla, anche volendo. L’alternativa sta semmai nell’esserne entusiasti fino al punto da anticiparne le conseguenze più radicali e magari remote, o, al contrario, nel tentare di convivere con essa senza esaltazioni eccessive, senza sentimenti messianici e palingenetici, e anzi ricordando che la conservazione di una parte non globalizzata delle nostre tradizioni e abitudini non è solo un dovere, una forma di rispetto verso noi stessi e verso la nostra storia, ma anche una necessità».

Qual è il compito dell’Accademia della Crusca?

«La Crusca ha diversi compiti istituzionali, ma tra questi mi preme sottolinearne uno in particolare: il servizio offerto a tutti i cittadini che decidono di rivolgersi a noi. Per questo stampiamo una rivista, “La Crusca per voi”, in cui si dà risposta ai quesiti sollevati dagli utenti. Oggi però questo servizio viene erogato soprattutto online. Lo scorso anno alle nostre pagine web hanno avuto accesso 5 milioni di utenti (12 milioni di visualizzazioni). Ci sono stati posti 6.954 quesiti, ai quali sono state date 1.197 risposte individuali e 90 collettive. Sono numeri, credo, piuttosto importanti».

Come vede il futuro della nostra lingua?

«L’italiano sarà quello che riusciranno a essere gli italiani. Se riacquisteremo fiducia in noi stessi, saremo in grado di dare valore alla nostra storia, e dunque anche alla nostra lingua».

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