venerdì 14 gennaio 2011
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È ancora possibile dire e scrivere cose innovative sulla Shoah? Come dar conto delle diverse scuole di ricerca e dei divergenti indirizzi storiografici sul genocidio ebraico perpetrato dai nazi-fascisti e dai loro collaboratori? Quale fu, se vi fu, lo specifico italiano di questa tragedia? E cosa rispondere a chi pensa che se ne sia già parlato abbastanza, e che troppa memoria induce all’assuefazione? A queste e a molte altre domande risponde in maniera accurata una nuova e monumentale opera (quasi milletrecento pagine in due tomi) dedicata alle vicende, alle memorie e alle rappresentazioni del più noto ed emblematico, seppur non unico, genocidio del Novecento, la Shoah, focalizzandosi sul caso italiano. In questa Storia della Shoah in Italia, appena edita dalla Utet, un gruppo di quarantasette studiosi riesce nella complessa impresa di collocare la persecuzione degli ebrei italiani, cominciata con le leggi razziste del 1938, la loro successiva deportazione verso Auschwitz (per molti) o la loro salvazione (per molti di più) nel duplice contesto delle vicende belliche europee e dello specifico caso italiano: gli ultimi anni del fascismo, la Resistenza, l’occupazione tedesca, la guerra di liberazione, il ritorno alla "normalità". Ma, come ci si aspetta da un’opera storica collettiva di tale respiro, si va a fondo di questioni tutt’altro che risolte: come si sviluppò l’antisemitismo fascista? Fu debitore solo al tradizionale antigiudaismo cristiano o non evolse piuttosto da una pseudoscienza che miscelava eugenetica ed etno-nazionalismo? Quale fu la risposta cattolica a quelle persecuzioni? Non stupisce pertanto che, nei due tomi, diversi saggi si soffermino proprio sul rapporto tra Chiesa cattolica e pregiudizio antiebraico, sulla questione del "silenzio di Pio XII", sul salvataggio degli ebrei in conventi e monasteri, sulla ricezione della Shoah in ambito ecclesiastico prima e dopo il Concilio Vaticano II. Su tali questioni l’opera non ha una sua tesi da difendere, e recepisce la pluralità della ricerca storia, i cui esiti sono e devono restare aperti. Ma proprio tale apertura rende obsoleti gli approcci acritici, ancora molto diffusi, di chi accusa e condanna senza appello e di chi difende ed esalta in tono apologetico. Scrive Liliana Picciotto, autorevole storica del Cdec di Milano, a riguardo dell’aiuto offerto agli ebrei da parte cattolica: «Il rifugio nei conventi e nelle case religiose, l’aiuto dei parroci nei piccoli centri, la disponibilità e il soccorso prestato da esponenti o semplici iscritti all’Azione cattolica fu di tale proporzione da assumere un aspetto corale. Al contrario di molti osservatori, non pensiamo che per questa opera fosse necessaria una specifica direttiva papale, ma che il soccorso agli ebrei in pericolo sia stato dispiegato nel quadro dell’esercizio della carità cristiana, per sua natura non selettiva, ma universalmente offerta a tutti coloro che erano in pericolo o in stato di bisogno materiale e morale». Molte le testimonianze che vengono qui riportate, le storie e i nomi di quanti emersero come autentici "resistenti civili" in un’ora della storia nella quale «non c’era limite al sopruso»: da Odoardo Focherini di Carpi a Torquato e Franco Fraccon di Vicenza, da Giovanni Palatucci di Fiume a padre Giuseppe Girotti di Torino, per non citare che alcuni di quelli che pagarono con la vita la resistenza a provvedimenti iniqui del regime. Ma molti di più sono i nomi e le storie di chi lavorò di nascosto – e solo dopo anni venne ricordato – per salvare i perseguitati: aprendo le cantine di casa, offrendo casolari in montagna, procurando falsi documenti (un lavoro tutt’altro che facile e che richiedeva molte azioni coordinate). Nel primo volume leggiamo ancora che «uno di questi falsari era Giorgio Nissim che, con l’aiuto di don Arturo Paoli, fabbricò decine di queste carte di identità [false] avendo come base la casa dei sacerdoti oblati a Lucca. Altri furono Luigi e Trento Brizi ad Assisi, che avevano avuto dal Comune incarico di produrre, con il vecchio torchio che avevano nel loro negozio, carte di identità in bianco. Essi regalarono a Giorgio Kropf, ebreo clandestino protetto dagli ecclesiastici locali, i documenti difettosi usciti dal loro torchio, documenti che venivano riciclati e immessi in circolazione». E via elencando. Certo, queste azioni di quotidiano eroismo non esauriscono purtroppo il quadro complessivo della Shoah in Italia. E non solo perché molti agirono a favore delle vittime per motivi assai meno nobili: soldi, opportunismo, salvarsi la reputazione nel caso le cose andassero per un altro verso. Vi furono molti, troppi casi di aiuto rifiutato, di vili delazioni e di vera e propria «vendita degli ebrei ai tedeschi». Casi documentati, a volte anche con nomi e cognomi. È vero, giudicare con il senno di poi non è saggio; resta tuttavia un dovere l’indagare, il discernere e il valutare senza preconcetti o generalizzazioni o categorie improprie. Quest’opera fa punto di tale faticoso discernimento. Se Primo Levi ha il merito di aver inventato per il lager il concetto di "zona grigia", nel caso della società italiana a prevalere sono piuttosto le "sfumature di grigio", termine utile per smontare il mito degli "italiani brava gente" che troppo a lungo è servito ad oscurare le coscienze e impedire un esame storico collettivo.
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