venerdì 2 ottobre 2009
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Per 13 anni è stato a capo della diplomazia vaticana. Dal 2007 è l’uomo che tesse il dialogo con l’islam. «Il problema nel mon­do musulmano d’oggi – spiega il car­dinale Jean-Louis Tauran, oggi pre­sidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso – sta nel far ac­cettare alla base le aperture che si registrano fra i leader più illumina­ti ». Ma la violenza e i conflitti «pos­sono e debbono essere superati e u­na delle chiavi della con­vivenza è nella scuola ». Questo, sostiene, è il messaggio più impor­tante lasciato da Papa Benedetto XVI in Terra Santa. Fra i tanti temi toccati dal Papa, quali sono quelli destinati a lascia­re più conseguenze? «Credo che il viaggio sia stato importante non so­lo per il dialogo coi mu­sulmani ma soprattutto per quello ecumenico, per la riconciliazione fra i cristiani. Le divisioni che si toccano con mano entrando nella basilica del Santo Sepolcro so­no una pugnalata al cuore, rappre­sentano qualcosa che ferisce e non sono una fatalità. La violenza e i con­flitti possono e devono essere supe­rati: questo è il messaggio più im­portante lasciato dal Papa». Lei si è occupato a lungo dello Sta­tuto speciale internazionalmente garantito per i Luoghi santi di Ge­rusalemme e dintorni. Pensa che sia ancora una soluzione possibile?«Non solo è possibile, ma direi che è l’unica soluzione che può garanti­re la pace in Terra Santa: perché non ci sarà pace se il problema dei Luo­ghi Santi non viene adeguatamente risolto. La Santa Sede ha sempre ap­poggiato l’ipotesi di uno Statuto spe­ciale internazionalmente garantito, dunque non modificabile unilate­ralmente, per la parte della Città san­ta 'intra muros', come viene indi­cata nelle bozze delle quali si è a lun­go discusso. Non abbiamo mai in­teso accennare alla sovranità politi­ca e territoriale che spetta alle auto­rità civili israeliane e palestinesi sta­bilire, ma auspichiamo che la co­munità internazionale si faccia ga­rante del carattere unico e sacro di questa parte della città, indipen­dentemente da ciò che avverrà sul piano politico, che rimane un pro­blema bilaterale». Lei ha definito il conflitto medio­rientale «la madre di tutte le guer­re », cessato il quale si sarebbe a­perta una fase di progresso e svi­luppo per l’intera regione. Lo vede ancora così?«Certamente. Anzi, direi che oggi questa convinzione è più viva che mai. Pensiamo a cosa sarebbe il Me­dio Oriente senza la guerra, a quan­to benessere e prosperità si diffon­derebbe per tutti i popoli della re­gione se tutto il denaro che viene og­gi speso per la lotta armata fosse in­vece investito in infrastrutture, scuo­le, creazione di posti di lavoro, ec­cetera… Ci sarebbe fiducia fra le per­sone, condivisione di risorse, di tec­nologia, di cultura». Che prospettive vede oggi per il pro­cesso di pace? «Da quanto si apprende dai media, sono due gli aspetti positivi che og­gi si possono riscontrare: il fatto che tutti parlino di due Stati e che Abu Mazen abbia dichiarato che la so­cietà palestinese ha scelto la strada del dialogo e della trattativa. Meno confortante è la presenza di questo Muro che ci ha tanto impressionato e la mancanza di fiducia che si regi­stra fra israeliani e palestinesi. D’altra parte, però, sappia­mo che non si può passare dalla guerra alla pace dall’oggi al domani. Quel che veramente addolo­ra in questa crisi è percepire la paura dell’altro e constata­re che non si riesce a risolvere un proble­ma di giustizia in­ternazionale: due popoli che hanno diritto a due Stati, con la stessa dignità, la stessa sovranità e la stessa libertà. Di fronte a questi prin­cipi abbiamo spes­so richiamato le re­sponsabilità della comunità interna­zionale, le risoluzio­ni dell’Onu mai ri­spettate, e sottoli­neato come la vio­lenza abbia preval­so sul diritto». Con il discorso al Cairo, il presidente Barak Obama ha suscitato grandi aspettative. «Tutti danno credito al presidente Obama, che certamente con questo discorso ha creato un clima più se­reno e aperto. Si è rivolto a tutti i mu­sulmani, e ha voluto precisare a tut­ti che non dobbiamo avere paura della religione musulmana. Ha par­lato della sofferenza dei due popoli e ha nuovamente chiesto di ferma­re le colonie. A tal proposito va rile­vato che non è chiaro se intendeva lo smantellamento di tutti gli inse­diamenti o il congelamento delle co­struzioni esistenti. Bisognerà vede­re quali iniziative concrete intra­prenderà, perché parlando con i­sraeliani e palestinesi abbiamo per­cepito quanto la gente sia stanca di discorsi, promesse e conferenze in­ternazionali: tutti vogliono fatti». La Santa Sede ha sollecitato più vol­te il coinvolgimento internaziona­le. Ma ormai anche le opinioni pub­bliche occidentali si chiedono con una certa stanchezza perché mal­grado proclami, bozze di accordo e mappe possibili, di questa «Guerra dei cent’anni» non si veda ancora la fine… «Credo che dipenda dal fatto che per troppi anni la violenza ha prevalso sul diritto, oscurando la ragione e rendendo impossibile il dialogo. I­noltre la comunità internazionale è rimasta passiva: forse soprattutto al­l’inizio, nel dopoguerra, non è stata sufficientemente coinvolta nella creazione di uno Stato palestinese. E poi non si può negare che il ricor­so agli attentati ha creato un mec­canismo perverso di violenza e rap­presaglie che ha portato alla sordità totale delle ragioni dell’altro. E la guerra, come disse Giovanni Paolo II, è sempre una sconfitta dell’umanità. Eppure la comunità internazionale, ed in particolare i responsabili del­le nazioni, mai come oggi dispon­gono di un corpus di strumenti giu­ridici così completo per poter diri­mere le controversie senza dover ri­correre alla guerra: basterebbe sem­plicemente applicare il diritto». Dunque manca la volontà politica? «Certamente. Ed è lì che il dialogo interreligioso può fare molto, senza per questo diventare politicizzato». Gli intellettuali islamici riformisti riconoscono che finora alla storia dell’islam è mancato l’Illuminismo, con il riconoscimento della libertà di coscienza e l’applicazione del metodo storico-critico anche alle Sacre Scritture. Con quali conse­guenze nel dialogo? «Innanzitutto va riconosciuto che, prima ancora dell’Illuminismo, è stato il cristianesimo a dare all’esse­re umano la nozione di persona u­mana e libera e a riconoscere la li­bertà di coscienza: per i cristiani la preghiera è dialogo con Dio, è con­versazione, mentre per i musulma­ni, come indica la stessa parola 'i­slam', la preghiera corrisponde ad un atto di 'sottomissione'. Nell’i­slam, il concetto della paternità di Dio, di Dio-padre, è assente». Negli incontri con i leader musul­mani che riscontro avete sulla li­bertà di cambiare religione? «Una parte dei musulmani accetta, più o meno, questi principi. La cosa difficile è far accettare alla base que­sta apertura che, invece, esiste nei leader più illuminati. Questo è il grande problema e quindi pensia­mo che bisogna investi­re sulle scuole perché è l’ignoranza a generare la paura. Una volta una suora, che tuttora lavo­ra in una scuola del Cai­ro mi ha detto: 'Vede, in vari quartieri abbiamo una moschea, una chie­sa e una scuola. Il futu­ro è nella scuola'. E l’e­sempio, come si è visto, è proprio nel Libano: nella convivenza che ha saputo creare attraverso la scuola e l’università. Un segnale di speranza è rappresentato dal fat­to che negli ultimi anni, diverse scuole cattoliche sono state aperte nei Paesi del Golfo, non più solo in Medio Oriente, e i risultati si vedo­no. Di recente un diplomatico della Penisola arabica mi ha detto: 'Tut­to quello che so lo devo alla scuola cattolica che ho frequentato fin da bambino, dove sono stato sempre rispettato e mai fatto oggetto di pro­selitismo'. Un gran bel complimen­to».
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