mercoledì 19 gennaio 2011
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Israele come il Sudafrica. Con i palestinesi portabandiera di u­na lotta all’apartheid che – alla fine – non potrà non fare breccia anche nelle stanze della diploma­zia internazionale. E con gli stessi Stati Uniti costretti a ritirare il loro sostegno, come già accaduto con Pretoria. A riproporre lo schema – per la verità non poi così nuovo – è stato recentemente Noam Chom­sky, il celebre linguista sostenitore 'senza se e senza ma' della causa palestinese, in un articolo rilancia­to in Italia da Internazionale. In­tervento apparso proprio mentre in Sudafrica divampava una pole­mica per certi versi speculare: quel­la di alcuni esponenti della locale comunità ebraica contro l’arcive­scovo Desmond Tutu, icona della lotta all’apartheid. A loro si deve in­fatti una petizione contro il presu­le 'reo' di sostenere attivamente la campagna internazionale per il boicottaggio degli insediamenti e­braici in Cisgiordania. «Uno così – sostengono i firmatari della peti­zione – non può stare nel Comita­to del Johannesburg Holocaust and Genocide Center». Sono due storie che ripropongono un’annosa questione: si può dav­vero accostare il caso di Israele a quello del Sudafrica? Apartheid è la parola giusta per descrivere la con­dizione degli arabi nello Stato e­braico? O si tratta solo di un ' for­mat ', di un’immagine forte che vei­cola emozioni più che rappresen­tare una realtà?Di quest’ultima o­pinione è assolutamente il sociolo­go Paolo Sorbi, attento osservato­re della realtà di Israele. «È un pa­ragone che può stare in piedi solo grazie a una verità paradossale: il crescente isolamento internazio­nale di Israele – attacca Sorbi –. Per­ché l’accostamento col Sudafrica è aberrante: Israele non è un Paese che produce apartheid. Sociologi­camente è un classico esempio di stereotipo e pregiudizio». Però – obiettiamo – è un fatto che all’interno della società israeliana il fattore etnico sia un tema sempre più caldo. Si discute di idee come il 'giuramento di lealtà', che condi­zionerebbe lo status di cittadini al­l’accettazione dell’identità ebraica dello Stato... «Proprio pochi giorni fa – risponde Sorbi – sul Jerusalem Post sono stati pubblicati i risultati di una ricerca da cui emerge anco­ra una volta che, se fossero costret­ti a scegliere, appena il quaranta per cento degli arabi-israeliani vorreb­bero finire sotto lo Stato palestine­se. Ed è logico: per loro vorrebbe di­re tornare indietro non solo a livel­lo di benessere economico, ma an­che di effettiva libertà. Altro che a­partheid. Quanto poi al giuramen­to di lealtà e alle altre tesi di questo tipo, ciò che non si dice mai è che gran parte della società israeliana è contraria... Certo – aggiunge ancora il sociologo –, i problemi tra arabi ed ebrei ci sono: ma li assimile­rei più a questioni di carattere sin­dacale, normali rivendicazioni di gruppo all’interno di una società».Neanche Janiki Cingoli – il diretto­re del Centro italiano per la pace in Medio Oriente (Cipmo), che da tan­ti anni opera per mettere in con­tatto tra loro politici ed esponenti della società civile i­sraeliana e palestinese – condivide l’analisi radi­cale di Chomsky. «Israe­le è un Paese che non è nato su basi razziali, ma nazionali – osserva – e quindi in sé il paragone con il Sudafrica non è pertinente. Tuttavia è vero che oggi registria­mo derive nuove imputabili sia al­l’estremismo religioso ebraico sia al nazionalismo di partiti come Yi­srael Beitenu [il partito dell’attuale ministro degli Esteri Avigdor Lie­berman, ndr]. Penso al caso dei rab­bini che ritengono immorale affit­tare una casa a un arabo. Ma anche all’altro appello recente, quello del­le loro mogli che hanno invitato le ragazze ebree a non dare appunta­menti a ragazzi arabi. Sono segna­li preoccupanti. Va anche detto, però, che Israele ha gli anticorpi per reagire dall’interno a questo tipo di posizioni».Non significa, però, che l’esperien­za sudafricana non stia insegnan­do qualcosa ai palestinesi. «Già nel 1984 – ricorda Cingoli – Sari Nus­seibeh, il rettore dell’Università al-Quds, in un’intervista che pubbli­cammo su Rinascita suggeriva la via sudafricana. Diceva che i pale­stinesi avrebbero dovuto optare per l’annessione dei Territori a Israele e poi lottare in maniera pacifica perché fossero loro garantiti gli stessi diritti. Con gli anni del Pro­cesso di Oslo sembrava un’idea su­perata. Ma ora Nusseibeh ha ripre­so a parlarne». Altro tema è quello del boicottaggio. «Una cosa è quel­lo indiscriminato dei prodotti i­sraeliani, che è inaccettabile – so­stiene il direttore del Cipmo –. Un’altra è quello selettivo di ciò che viene prodotto negli insediamenti. Questo secondo per me è un modo legittimo di aumentare la pressio­ne internazionale su questo tema».Ma quando Chomsky evoca un passo indietro degli Stati Uniti, co­me accaduto con il Sudafrica, par­la di una prospettiva realistica? «Il rischio c’è – risponde Sorbi – ed è parte di quel gravissimo disimpe­gno dell’Occidente nei confronti di Israele di cui parla da tempo Fiam­ma Nirenstein. Il problema di Ba­rack Obama non sono le singole scelte in Medio Oriente, ma la man­canza di una comprensione stori­ca di che cosa rappresenta Israele». «Non credo che gli Stati Uniti arri­veranno mai a considerare Israele uno Stato razzista – sostiene inve­ce Cingoli –. Ma certo, soprattutto dopo il fallimento di questi ultimi mesi, la possibilità che Washington allenti un po’ i vincoli c’è. Che poi questa cautela sia la premessa di un disimpegno o di un cauto ripo­sizionamento è da vedersi». C’è infine anche chi – partendo sempre dal paragone tra Israele e il Sudafrica – prova a mischiare un po’ le carte, cercando di trasfor­marlo in un’opportunità. È il caso di Windows, un’Ong israeliana che dal Sudafrica ha importato a Tel A­viv l’idea vincente di Moloshon­gololo, la rivista attra­verso cui ragazzi di et­nie, lingue e culture di­verse prima ancora che cadesse hanno apriro­no una finestra di co­municazione nel mon­do dell’apartheid. Dal 1995 anche in Israele e Palestina Windows pro­va a fare la stessa cosa attraverso i ragazzi del­le scuole. «Il paragone con il Sudafrica è interessante, ma va maneggiato con attenzione per­ché questa non è la stessa la storia – commenta la fondatrice Rutie At­smon –. Quando abbiamo fondato la rivista prendendo a modello Moloshongololo l’idea era quel­la di mettere in comunicazione ra­gazzi che oggi in Israele e in Pale­stina non hanno altre strade per parlarsi, ascoltarsi, scoprire analo­gie e differenze, imparare che si può sperare in un futuro migliore. Oggi stiamo studiando soprattutto il pro­cesso di riconciliazione in Sudafri­ca. Perché è vero che la riconcilia­zione potrà avvenire solo quando l’occupazione e l’oppressione sa­ranno finite; ma per arrivarci dav­vero dobbiamo preparare i nostri giovani a vedere il futuro di una vi­ta insieme e a lavorare concreta­mente perché succeda davvero».
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