domenica 24 giugno 2018
Parla il politologo tunisino Hamadi Redissi: «La mancata separazione tra l'ambito teologico e dimensione politica è centrale, e si avverte soprattutto nella questione della blasfemia»
Un fedele in preghiera nella moschea di Katmandu

Un fedele in preghiera nella moschea di Katmandu

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Quali significati può assumere la parola “appartenenza” nel mondo musulmano? “Islam e appartenenze” – al plurale – è il tema del convegno internazionale di Pluriel che si svolgerà a Roma, presso la Pontificia Università Gregoriana, dal 26 al 28 giugno. Espressione della Fuce, la Federazione delle università cattoliche d’Europa e del Libano, Pluriel è una piattaforma di ricerca sul dialogo islamocristiano. In questa prospettiva si collocano i lavori del convegno, che si concluderanno con un intervento del cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso. L’apertura è invece affidata al politologo tunisino Hamadi Redissi, figura di spicco nel dibattito pubblico del suo Paese (è presidente onorario dell’Osservatorio per la transizione democratica) e voce tra le più ascoltate nella riflessione sul rapporto tra islam e modernità. Toccherà a lui occuparsi di una delle questioni più controverse, quella relativa alla blasfemia. «Di per sé è un problema comune a tutte le religioni – spiega –. Ma ultimamente è quasi diventato un’esclusiva dell’islam».

Come mai?

«Per la mancata separazione tra le diverse sfere di cui la società si compone. Non dimentichiamo che nell’Ottocento anche la Chiesa cattolica considerava “delirante” l’idea di libertà di coscienza e lo stesso esercizio della liberà era ritenuto un atto di perdizione. Bisognerà attendere la dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae, che risale al 1965, perché la dimensione civile della libertà religiosa sia accolta dalla Chiesa: al presunto “diritto all’errore” subentra la nozione della libertà civile di cui ogni persona umana dispone in modo naturale. Ma è proprio qui che l’islam incontra un ostacolo».

Quale?

«In assenza di un’autorità centrale come quella della Chiesa diventa difficile distinguere tra diritto alla verità sul piano religioso e diritto alla libertà sul piano civile. Di fatto l’islam rimane impantanato in una prospettiva teologica e politica insieme, che impedisce di concepire la separazione tra sfere diverse. È un dispositivo a tre facce: il diritto positivo, i tribunali, la pratica della fatwa. Nel mondo musulmano la maggior parte delle Costituzioni fa riferimento all’islam, così come tutte le legislazioni condannano l’offesa contro la religione e possono prevedere la pena di morte in caso di apostasia o di ingiuria al Profeta, secondo le disposizioni del diritto islamico classico. Dove non si pronuncia lo Stato, intervengono gli ulema con la fatwa, recepita come sentenza celeste dai suicidi che si incaricano di eseguirla. In Pakistan, a partire dagli anni Ottanta, ci sono state una trentina di queste uccisioni extragiudiziali. Spesso gli assassini muoiono nel compire l’impresa oppure non vengono arrestati. Se anche questo accade, vengono condannati a pene molto lievi rispetto alla gravità del reato. Una volta usciti di prigione, sono celebrati come eroi. Chi prova a dissociarsi è soggetto ad angherie di ogni tipo».

È così in tutti i Paesi?

«Ci sono Stati che trattano alla stregue di un crimine solo l’oltraggio all’islam, altri condannano l’offesa arrecata al Profeta, altri ancora la estendono all’apostasia. Ma è una tripartizione che non va enfatizzata. L’Egitto, che in teoria appartiene al primo gruppo, è il Paese che detiene il record di processi per blasfemia, apostasia, insulti al Profeta, attentati al buoncostume e all’ordine pubblico. Secondo un rapporto dell’Iniziativa egiziana per i diritti civili, tra il 2011 e il 2015 i tribunali avrebbero condannato 81 cittadini per reati contro la religione. È la conseguenza della carenza di distinzione tra sfera teologica e sfera politica».

Ma il Corano come affronta la blasfemia?

«L’insulto a Dio e alla religione è condannato con nettezza nella nona sura: “Se li interroghi, certamente ti diranno: Stavamo solo chiacchierando e scherzando. Tu allora di’ loro: Voi vi prendete gioco di Dio , dei suoi segni e del suo Profeta? Non scusatevi, perché siete divenuti miscredenti dopo aver creduto”. Altrove si afferma che Dio “maledice in questo mondo e nell’aldilà quanti offendono Dio e il suo Profeta, preparando per loro un castigo ignominioso”. Il Corano, però, non stabilisce un castigo per l’immediato. I detti e le gesta del Profeta offrono un quadro ancor più pieno di contrasti: alcuni blasfemi vengono uccisi, ad altri è risparmiata la vita. Ma tutto questo, purtroppo, non aiuta a capire se il pentimento sia sempre accettabile».

Della blasfemia esistono definizioni diverse?

«Le parole possono cambiare, ma il concetto rimane e comporta una definizione, oltre che una sanzione. Nel diritto islamico ci si riferisce all’“insulto” ( sabb oppure shatm) ed è comune la convinzione per cui chi insulta Dio, la religione e Muhammad è un empio che dev’essere ucciso, a meno che non si penta. Ma non c’è accordo sul fatto che questo pentimento vada sempre accolto. Anche calunniare la sposa del Profeta o i suoi compagni è un peccato, punito però in modo più discrezionale, di solito a frustate».

Quale spazio può esserci per la libertà di pensiero, di critica e di espressione in questo contesto?

«Questa è senza dubbio la sfida maggiore. In Occidente vige una distinzione abbastanza chiara tra libertà di critica e blasfemia, mentre nel mondo musulmano il confine non è così preciso. Ci sono intellettuali che cercano di promuovere un’interpretazione dell’islam in chiave liberale, ma sono osteggiati dal potere politico, dalle autorità religiose e dalla stessa opinione pubblica. Quanto al dialogo, non può limitarsi alla cerchia ecumenica ed esige che a tutti gli interlocutori sia riconosciuta uguale dignità. L’Occidente non si sta mostrando molto accogliente nei confronti della cosiddetta “questione islamica”. L’islam da parte sua, rivendica diritti dove si trova in minoranza e detta legge dov’è in maggioranza».

Il tema della blasfemia può influire sulla complessità dei processi migratori?

«Il nodo è la complessità, appunto. Mi pare che in Europa non si colgano le implicazioni intellettuali e morali della questione. Si guarda alle migrazioni, ai migranti e ai rapporti tra le comunità in modo abbastanza meschino, come se l’Europa facesse storia a sé. In Francia, per esempio, il dibattito è molto riduttivo e si fonda sulla contrapposizione tra quanti, come Gilles Kepel, sostengono che sia in atto l’ennesima radicalizzazione dell’islam e quanti, come Olivier Roy, pensano che l’islamismo sia invece uno strumento di cui i radicalisti si servono. L’islam, insomma, non farebbe altro che produrre terroristi o, in alternativa, attirare delinquenti. In un modo o nell’altro, non si tengono in alcuna considerazione fattori come l’influenza dei Paesi da cui i migranti provengono, la dimensione sociale originaria, i conflitti dell’area mediorientale, il ruolo dei media islamici, la consuetudine della fatwa digitale e la pressione esercitata dalla tradizione giuridica e teologica. Il dibattito in corso dovrebbe portarci a riflettere sulla globalizzazione delle religioni e più ancora su come i credenti possano deliberatamente macchiarsi di crudeltà. Nel Novecento non avremmo mai pensato di confrontarci con questioni simili».

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