lunedì 25 aprile 2011
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Guarderà fissa in una piccola telecamera. «Perché oltre all’orchestra che avrò di fronte in buca dovrò dirigere un’altra orchestra e il coro in collegamento video dalla sala prove». Ma lo sguardo di Susanna Mälkki, prima donna a dirigere un’opera lirica al Teatro alla Scala – sarà sul podio per la prima assoluta di Quartett di Luca Francesconi – martedì andrà oltre. «A tutte quelle donne – racconta la musicista finlandese, classe 1969 – che oggi nel mondo non godono ancora di quei diritti fondamentali che qui in Occidente siamo riuscite a conquistare con battaglie politiche e sociali».Anche il «diritto» a dirigere un’orchestra, maestro Mälkki?La musica è lo specchio della nostra società dove l’uomo detiene il potere in tutti i campi. E quello di direttore d’orchestra è un ruolo di potere: impone scelte e grande determinazione. Il riconoscimento del ruolo della donna in campo musicale è arrivato alla fine di un difficile percorso che ha portato alla conquista di diritti fondamentali come quello al voto che sino alla metà del secolo scorso a noi donne era negato. Ma il tempo delle battaglie non è finito.Intende per portare ancora più donne sul podio?Non solo. La donna vive una condizione di evidente inferiorità in molte parti del mondo, pensiamo solo al continente africano. Ma anche in Occidente resta sempre più debole rispetto all’uomo. Lo riscontro anche nella mia professione dove un’orchestra guarda sempre con un po’ di sospetto un direttore giovane o poco noto. Io questo sguardo me lo sento sempre addosso. Ma ci sono abituata. Ciò che non riesco proprio a fare, invece, è combinare la mia vita artistica con la famiglia: per un uomo è più facile.Cosa occorrerebbe, allora?Una maggior consapevolezza di noi stesse, un maggior coraggio nel chiedersi cosa ciascuno di noi vuole fare della propria vita, se è disposto a scommettere, a giocarsi in prima persona o se invece preferisce subire scelte fatte da altri. Spero sia la nostra prossima conquista.Per intanto ha conquistato il podio di Toscanini, Abbado e Muti. Che effetto le fa essere la prima donna che ci sale sopra?Un onore. E una grande responsabilità. Quando mi hanno chiamata non ci credevo. Nella carriera di un direttore, uomo o donna che sia, il debutto alla Scala – dove prima di iniziare le prove non ero mai stata – è sempre un punto di svolta perché questo è il teatro che più di tutti gli altri al mondo ha segnato la storia della lirica.Perché, allora, un’opera contemporanea? Verdi sarebbe stato un azzardo?Il mio impegno con l’ensemble InterContemporain mi fa considerare una specialista della musica contemporanea. Ma le mie basi sono solidamente classiche: prima di dirigere sono stata violoncellista e dal podio ho affrontato tanto repertorio sinfonico. Certo debuttare con un’opera nuova mi aiuta perché la musica di oggi permette di arrivare al pubblico con un linguaggio moderno scritto da gente viva.Vuole dire, allora, che il melodramma ottocentesco è musica «morta»?No di certo. Tanto che un giorno mi piacerebbe affrontare Verdi. Anche perché sono convinta che i migliori compositori di oggi siano quelli che combinano tradizione e innovazione. Se ben scritta e ben eseguita la musica contemporanea può toccare le corde più profonde dell’anima. Occorre farlo capire al pubblico, disabituato ad emozionarsi ascoltando un brano contemporaneo, specie dopo che negli anni Cinquanta e Sessanta, a partire da Stockhausen, l’emozione è stata messa da parte a vantaggio della razionalità. Come artista sento di non poter scindere l’elemento razionale, solitamente associato agli uomini, con quello emotivo, che si riconduce alla sensibilità femminile. Divisione pretestuosa. Che l’arte ci insegna a superare.
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