È uno dei 5 uomini del pianeta calcio ad aver vinto sia da giocatore che da allenatore la Champions e uno dei 3 quella di campione del mondo per club. È anche grazie a Carlo Ancelotti se il Milan è il 2° club più titolato dell’universo (18 titoli internazionali contro i 19 del Boca Juniors), eppure non c’è pace tra i boschi di Milanello.
I “grilli parlanti” dicono: se il Milan non arriva 3° la sua avventura rossonera si chiude. Che momento sta vivendo? «È il periodo degli insulti che arrivano via lettera o per sms. Minacce? In passato qualche mitomane ha provato a farlo con i miei figli e a quel punto ho avvertito la Digos...».
Siamo un Paese nel pallone? «Ieri un tifoso al cancello si è avvicinato e mi fa: “Dai Carlo, sono disoccupato, trovami un lavoro...”. Sono cose che fanno male, capisci che c’è qualcosa che non va più». Specie quando si viene etichettati come “allenatori milionari” e con il mondo ai propri piedi. «Io prima di tutto non sono un allenatore, ma un uomo leale, un educatore di campo che cerca di fare il suo lavoro al meglio e di migliorarsi continuamente come persona».
Saggezza d’altri tempi... «È la cultura contadina che mi hanno impartito mio padre Giuseppe e mia madre Cecilia (se ne è andata nel ’93). Loro mi hanno insegnato a tenere sempre i piedi ben piantati per terra, ad apprezzare i valori forti della vita a cominciare dal lavoro, quelÈ lo stagionale che ti viene pagato dopo dodici mesi. Anche nel calcio raccogli i frutti dopo un anno, quindi io aspetto sereno».
Da stagionale della campagna ai campi di calcio, il passo è stato così breve? «Ad inizio carriera alla Roma mi infortunai seriamente e mia madre mi disse che se non avessi più potuto giocare un posto per me nella lavorazione del latte ci sarebbe sempre stato. Il destino ha voluto che tornassi più forte di prima».
Il destino gli ha giocato scherzi strani in carriera? «Nel mio caso poteva portarmi all’Inter nel ’79, poi invece mi ha voluto alla Roma. Penso spesso che se alla Juve avessi vinto quello scudetto (perso nel 2000 a Perugia), forse sarei rimasto altri 8 anni ad allenare i bianconeri e invece ho costruito la mia storia e le mie fortune al Milan».
Il caso o la fede in Dio ha regolato il suo cammino? «Sono un cristiano. Dio ti aiuta a vivere in maniera più serena e a prestare maggiore attenzione a chi è meno fortunato. Negli ultimi anni poi, grazie a una persona mi sono molto avvicinato a Padre Pio».
Ci dice chi è quella persona? «Luciano Moggi. Quando ero alla Juve mi portò a Pietrelcina alla casa natale di Padre Pio. Da allora ogni anno vado a San Giovanni Rotondo a pregare alla tomba e a ringraziarlo. Quest’estate non ho potuto, stavano riesumando la salma del Santo. Sarà una coincidenza, ma le cose qui finora non sono andate per il verso giusto. Speriamo che mi ascolti...».
Giudizio su Moggi e Calciopoli? «Qualcosa c’è stato ed è vero che gli arbitri erano condizionati e sbagliavano. Lo fanno anche adesso, ma solo perché sono giovani e inesperti. I nostri arbitri e allenatori sono da sempre i più criticati, ma poi classifiche alla mano scopri che sono i migliori al mondo».
Però in Italia, anche quando perde, si parla soltanto di Mourinho. «Parlate sempre del “comunicatore” Mourinho che è una componente che mi affascina poco della sua personalità, perché spesso dice anche cose inutili. Mentre io trovo molto interessante la sua metodologia di lavoro. Se mi invitasse, andrei volentieri a seguire una sua seduta ad Appiano. Al di là di come è andata a Manchester stiamo parlando di un grandissimo allenatore».
Inghilterra-Italia di Champions è finita 3-0, qual è il nostro problema? «Gli inglesi ci hanno superato anche perché hanno una diversa e migliore concezione dello sport. A noi manca l’accettazione della sconfitta, tutto è finalizzato solo al risultato. Qui finché per andare allo stadio una squadra deve essere scortata da quattro gazzelle della Polizia vuol dire che c’è ancora tanto da lavorare...».
Eppure lei vive in quest’oasi felice, quasi a dimensione famigliare. «Milanello è la nostra casa e il Milan è una famiglia sul serio. Qui da oltre vent’anni dal presidente ai camerieri sono sempre gli stessi. Io ho fatto “13”: cinque anni da giocatore e 8 da allenatore. La continuità è un punto di forza».
Sembra una frase di Silvio Berlusconi. Chi è per lei il Presidente? «L’uomo che anche nel calcio ha reso concrete le utopie. Quando Berlusconi mi volle come giocatore al Milan mi disse che in tre anni saremmo diventati campioni del mondo. Pensavo fosse una follia, tre anni dopo stringevo tra le mani la Coppa Intercontinentale».
Ma dica la verità, la formazione glie l’ha mai fatta? «Berlusconi è un uomo di un’intelligenza così fine che non si permetterebbe mai di invadere il ruolo di competenza di un suo collaboratore». Però quando si tratta di prendere le star come Beckham il suo parere pesa... E ha visto lungo. Beckham è un un bene che sia rimasto con noi. Sapevo che in campo avrei trovato un campione e non solo quell’uomo da copertina che piace tanto ai media».
Lei invece, fuori onda, ogni settimana va a trovare Stefano Borgonovo. «Stefano è un grande. È lui che dà forza a me e con la sua testimonianza si è intensificata la lotta alla Sla. Ora arrivano più fondi per la ricerca. Ogni incontro è un piacere e una “sfida” tra due vecchi compagni di squadra, uniti da una memoria di ferro. Ci ricordiamo tutte le partite...».
Esiste la “partita perfetta”? «È esistita - sorride - , semifinale di Champions 2007, Milan-Manchester 3-0».
Pensa di poterla rivivere ancora un’altra da questa panchina? «Lo spero. Io so che allenerò fino a che ne avrò forza e voglia. Poi da pensionato farò il tifoso, “giallorossonero” ».