sabato 14 marzo 2009
Il calcio, la fede, il passato, Berlusconi. «Resto al Milan, se mi vogliono ancora». Mourinho? «Quando parla dice tante cose inutili: invece è un grande tecnico. Se mi invitasse, andrei a vedere come lavora».
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È uno dei 5 uomini del pianeta calcio ad aver vinto sia da gio­catore che da allenatore la Champions e uno dei 3 quella di campione del mondo per club. È an­che grazie a Carlo Ancelotti se il Mi­lan è il 2° club più titolato dell’uni­verso (18 titoli internazionali contro i 19 del Boca Juniors), eppure non c’è pace tra i boschi di Milanello. I “grilli parlanti” dicono: se il Milan non arriva 3° la sua avventura ros­sonera si chiude. Che momento sta vivendo? «È il periodo degli insulti che arriva­no via lettera o per sms. Minacce? In passato qualche mitomane ha pro­vato a farlo con i miei figli e a quel punto ho avvertito la Digos...». Siamo un Paese nel pallone? «Ieri un tifoso al cancello si è avvici­nato e mi fa: “Dai Carlo, sono disoc­cupato, trovami un lavoro...”. Sono cose che fanno male, capisci che c’è qualcosa che non va più». Specie quando si viene etichettati come “allenatori milionari” e con il mondo ai propri piedi. «Io prima di tutto non sono un alle­natore, ma un uomo leale, un edu­catore di campo che cerca di fare il suo lavoro al meglio e di migliorarsi continuamente come persona». Saggezza d’altri tempi... «È la cultura contadina che mi han­no impartito mio padre Giuseppe e mia madre Cecilia (se ne è andata nel ’93). Loro mi hanno insegnato a te­nere sempre i piedi ben piantati per terra, ad apprezzare i valori forti del­la vita a cominciare dal lavoro, qu­el­È lo stagionale che ti viene pagato do­po dodici mesi. Anche nel calcio rac­cogli i frutti dopo un anno, quindi io aspetto sereno». Da stagionale della campagna ai campi di calcio, il passo è stato così breve? «Ad inizio carriera alla Roma mi infortunai seriamente e mia madre mi disse che se non avessi più potu­to giocare un posto per me nella la­vorazione del latte ci sarebbe sempre stato. Il destino ha voluto che tor­nassi più forte di prima». Il destino gli ha giocato scherzi stra­ni in carriera? «Nel mio caso poteva portarmi al­l’Inter nel ’79, poi invece mi ha volu­to alla Roma. Penso spesso che se al­la Juve avessi vinto quello scudetto (perso nel 2000 a Perugia), forse sa­rei rimasto altri 8 anni ad allenare i bianconeri e invece ho costruito la mia storia e le mie fortune al Milan». Il caso o la fede in Dio ha regolato il suo cammino? «Sono un cristiano. Dio ti aiuta a vivere in maniera più serena e a pre­stare maggiore attenzione a chi è me­no fortunato. Negli ultimi anni poi, grazie a una persona mi sono molto avvicinato a Padre Pio». Ci dice chi è quella persona? «Luciano Moggi. Quando ero alla Ju­ve mi portò a Pietrelcina alla casa na­tale di Padre Pio. Da allora ogni an­no vado a San Giovanni Rotondo a pregare alla tomba e a ringraziarlo. Quest’estate non ho potuto, stavano riesumando la salma del Santo. Sarà una coincidenza, ma le cose qui fi­nora non sono andate per il verso giusto. Speriamo che mi ascolti...». Giudizio su Moggi e Calciopoli? «Qualcosa c’è stato ed è vero che gli arbitri erano condizionati e sbaglia­vano. Lo fanno anche adesso, ma so­lo perché sono giovani e inesperti. I nostri arbitri e allenatori sono da sempre i più criticati, ma poi classi­fiche alla mano scopri che sono i mi­gliori al mondo». Però in Italia, anche quando perde, si parla soltanto di Mourinho. «Parlate sempre del “comunicatore” Mourinho che è una componente che mi affascina poco della sua per­sonalità, perché spesso dice anche cose inutili. Mentre io trovo molto interessante la sua metodologia di lavoro. Se mi invitasse, andrei volen­tieri a seguire una sua seduta ad Ap­piano. Al di là di come è andata a Manchester stiamo parlando di un grandissimo allenatore». Inghilterra-Italia di Champions è fi­nita 3-0, qual è il nostro problema? «Gli inglesi ci hanno superato anche perché hanno una diversa e miglio­re concezione dello sport. A noi man­ca l’accettazione della sconfitta, tut­to è finalizzato solo al risultato. Qui finché per andare allo stadio una squadra deve essere scortata da quattro gazzelle della Polizia vuol di­re che c’è ancora tanto da lavorare...». Eppure lei vive in quest’oasi felice, quasi a dimensione famigliare. «Milanello è la nostra casa e il Milan è una famiglia sul serio. Qui da oltre vent’anni dal presidente ai camerie­ri sono sempre gli stessi. Io ho fatto “13”: cinque anni da giocatore e 8 da allenatore. La continuità è un punto di forza». Sembra una frase di Silvio Berlu­sconi. Chi è per lei il Presidente? «L’uomo che anche nel calcio ha re­so concrete le utopie. Quando Ber­lusconi mi volle come giocatore al Milan mi disse che in tre anni sa­remmo diventati campioni del mon­do. Pensavo fosse una follia, tre an­ni dopo stringevo tra le mani la Cop­pa Intercontinentale». Ma dica la verità, la formazione glie l’ha mai fatta? «Berlusconi è un uomo di un’intelli­genza così fine che non si permette­rebbe mai di invadere il ruolo di com­petenza di un suo collaboratore». Però quando si tratta di prendere le star come Beckham il suo parere pe­sa... E ha visto lungo. Beckham è un un bene che sia rimasto con noi. Sape­vo che in campo avrei trovato un campione e non solo quell’uomo da copertina che piace tanto ai media». Lei invece, fuori onda, ogni settima­na va a trovare Stefano Borgonovo. «Stefano è un grande. È lui che dà forza a me e con la sua testimonian­za si è intensificata la lotta alla Sla. O­ra arrivano più fondi per la ricerca. O­gni incontro è un piacere e una “sfi­da” tra due vecchi compagni di squa­dra, uniti da una memoria di ferro. Ci ricordiamo tutte le partite...». Esiste la “partita perfetta”? «È esistita - sorride - , semifinale di Champions 2007, Milan-Manchester 3-0». Pensa di poterla rivivere ancora un’altra da questa panchina? «Lo spero. Io so che allenerò fino a che ne avrò forza e voglia. Poi da pen­sionato farò il tifoso, “giallorossone­ro” ».
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