venerdì 5 aprile 2024
Una vasta retrospettiva dedicata all’artista e designer che cambiò il modo di avvicinare i ragazzi all’arte e agli oggetti. Tutta l’opera per la prima volta riunita insieme Mamiano di Traversetolo
Bruno Munari, “Alfabeto Lucini”, 1984

Bruno Munari, “Alfabeto Lucini”, 1984 - Munari-Corraini

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A Bruno Munari piaceva quel tipo di genialità anonima che il mondo non ha quasi mai premiato ma i cui frutti continuano a essere frequenti e diffusi. Quella di Munari, come ricorda Marco Meneguzzo nell’ottimo saggio che accompagna la mostra allestita alla Fondazione Magnani Rocca, diretta da Stefano Roffi a Mamiano di Traversetolo (catalogo Cimorelli), era di più di una simpatia verso gli inventori anonimi, che per lui forse rappresentavano il distillato dell’immagine dell’artista che fa da ostetrico al segreto che il mondo custodisce prima che l’anonimo ne cavi il più puro dei frutti manipolandone forme e materie, ovvero tecnica, semplicità, estetica, e una vena ironica che non manca mai nelle opere di Munari. Era così convinto che l’anonimo è la quintessenza dell’artista-pedagogo che Munari ricrea oggi. E lui, dice appunto Meneguzzo, avrebbe voluto più volte attribuire il Compasso d’Oro, il più prestigioso riconoscimento nel design italiano, ad autori ignoti che realizzarono oggetti perfetti (e alcuni vennero premiati attraverso l’oggetto): la sedia a sdraio, le forbici bilanciate da sarto, la macchina da caffè napoletana, esemplifica Meneguzzo, il quale non offre un saggio storico, per quanto ci sia sempre molto da aggiungere a quel che sappiamo, ma di evocazioni e spunti di idee e poetica. Munari era schivo quel che basta per risultare anche divertente senza far decadere la spinta morale che gli consentiva un controllo efficace ed essenziale dei mezzi. Assolutamente giusto quanto scrive Meneguzzo a proposito di quel tono essenziale del suo luogo di lavoro: «luminoso, era un ufficio ma non era un ufficio, uno studio ma non era uno studio… forse non era neppure il luogo dove si pensavano i progetti, perché l’impressione era che Munari potesse pensarli ovunque». Meneguzzo aggiunge a proposito del luogo di lavoro di Munari: «Nessun manufatto d’autore, non il tavolo né la libreria né gli schedari: tutto talmente funzionale da risultare anonimo, ma non, come si potrebbe pensare, anonimo come un mobile Ikea perché questo, al contrario, non è affatto anonimo e riflette perfettamente l’idea massificata e massificante di Ikea». In realtà, c’è un terzo polo da mettere in risalto, il design che non è Munari e non è Ikea; quello che quando vai a comprare un pezzo prodotto industrialmente ti costa un occhio della testa e spesso non ha la bellezza elementare degli oggetti pensati dal grande designer. La mostra di Mamiano è ampia, completa fin dalle cose degli anni Trenta quando si sente l’influenza sia dell’estetica autarchica, sia di un fascismo con cui Munari si mette presto a giocare, come fa ogni volta che cerca di rendere una comunicazione, anche quella pubblicitaria, visiva e pensante. Si è figli del proprio tempo, in qualche modo. C’è Munari e il futurismo; e Munari che vede Mussolini che arringa le folle uscire in una pagina da un “buco” o un occhio nell’Almanacco Letterario Bompiani del 1936 e 1937; passa il Ventennio e la soluzione di continuità rompe il facile schema di assimilazione col fascismo e il tempo, con la propria bacchetta musicale, batte un quarto di secolo; è allora che Munari realizza una nuova grafica per l’Almanacco Bompiani lungo gli anni Sessanta. Stringendo oltre il dopoguerra un patto creativo a vantaggio dei bambini, il genio di Munari è certo pari al lavoro svolto nella scrittura e nella pedagogia da Gianni Rodari (qualtanta. che anno fa l’editore Corraini aveva fatto girare in un libro una sorta di ruota di immagini e parole, dove un disegno o un segno di Munari poteva accompagnare una rima di Rodari). Ma torniamo all’anonimo, perché c’era, a suo modo, anche nei laboratori del Bauhaus, dove scienza, percezione, tecnica, arte convergevano in qualcosa che nasceva appunto da laboratori artistici, scientifici, ma anche esoterici. L’essenzialità era anche di natura, e appunto potrebbe darsi che da un rametto d’albero derivi una intera estetica di Munari; del resto il gotico francese nasce come trsformazione di una struttura arborea e, con una declinazione più estetica, ma non troppo esteriore, questo impulso si ripresenta sei secoli dopo nell’Art Nouveau. Anche nelle “sculture da viaggio” Munari sembra sviluppare, oltre l’apparente combinazione di segmenti snodati a partire da fogli di legno, cartonicino o metallo, quell’idea “diversa” di adattamento e flessibilità che riguarda più lo spazio di lavoro o di vita che il singolo materiale, secondo schemi strutturali che comprendono il tagliare, il piegare, il comporre, l’innestare e, alla fine, generano qualcosa che ha la stessa poetica, talvolta, dell’infinito di Lucio Fontana che attraversa la superficie opaca nel taglio o nel buco generato dall’artista. Del resto, le sculture aere e i giochi di luce non sono poi così distanti da quelle dell’italoargentino, e magari quelle di Munari sono in un contesto che, come inizialmente lo aveva avvicinato al futurismo, ora lo rende più prossimo allo spazialismo. Come nota lo stesso Meneguzzo, l’astrattismo geometrico che pure Munari pratica, non ha per lui valore dogmatico. Certo è che la sua serie “negativo-positivo” degli anni Cinquanta, trovò poi una rilettura più estetica dall’americano Peter Halley negli anni Novanta. Ma con Munari sovrapposizioni e piegature di piani generavano elementi spaziali scultorei per una pittura a più dimensioni. Siamo sempre in un contesto di espressione ludica, come già il fotomontaggio degli anni Trenta Momenti d’un lancio con salvagente aereo a mio parere lontanissima dal “lasciateci divertire” postmoderno; o il ritratto di Prampolini in velocità visto da Munari, del 1932. Col tempo quell’ironia insegue una universalità che confermi la metodologia, il suo punto fermo, che è anche un’altra dimensione del limite, la misura. La stessa delle “macchine inutili” che sono una sintesi di geometria, fisica, colori, percezioni; una storia che inizia negli anni Trenta e prosegue fino agli Ot Realtà che in modo molto più neutro sono come dei mobiles “à la Munari”, lo stesso per le sculture diafane di Filipeso del 1991, fatte di tubi di alluminio, corda e piombo. La cosa davvero sorprendente è che Munari abbia lasciato pochi disegni esecutivi, soltanto molti schizzi, che erano un mezzo immediato ed espressivo per chiarire l’idea del progetto che andava realizzando; ma il metodo di Munari ha, per certi aspetti, l’identità filosofica che la Méthode cartesiana ha nel rappresentare anche una filosofia. Egli era un artefice di grandi conoscenze tecniche e sui materiali; scriveva con un fare che rende visibile; era un vero maieuta, come ricorda Meneguzzo, pronto a varcare i confini, a creare delle ibridazioni concettuali, dei paradossi concreti, e si può aggiungere che queste parole chiave del suo lavoro – metodo, semplicità, anonimato, flessibilità, colore, materiali – hanno poi trovato un registro nuovo e definitivo quando si è rivolto, dagli anni Settanta, ai bambini coi laboratori dove i ragazzini disegnavano forme applicando il suo metodo. Ma ecco subito un’avvertenza per gli insegnanti: di grande suggestione la spiegazione che dà della “rosa nell’insalata” – l’immagine di una rosa che emerge dalla stampa a timbro tagliando quasi alla radice un cespo di radicchio che viene ad assomigliare a una rosa –; ma Munari , di fronte agli insegnanti che pensavano di replicare l’esperimento tagliando una patata incidendola e usandola come timbro, concluse: «non capivano che è una cosa completamente diversa, perché un conto è scoprire una forma in un’altra forma, un altro è usare un materiale naturale come strumento tecnico». Sbagliavano, insomma, a paragonare il radicchio e la patata incisa: «in questo caso non esiste nessuna scoperta». Si trattava di trovare qualcosa dentro la realtà, non di fabbricarne una che le assomigliasse. In ogni caso, dal posacene a cubo con interno ripiegato, al libro illeggibile con interno in bianco e rosso, ai ritratti degli Antenati e alle variazioni del volto umano; e ancora: la serie delle forchette piegate come uno strano alfabeto, riprodotte in una lunga serigrafia del 1995; i menabò per i libri per bambini; le scritture illeggibili, singolari ideogrammi che hanno una loro frase da esprimere ma ci fissano come occhi; e così le varie estetiche per le copertine dei libri, anche quelli d’artista del movimento Arte concreta. Alla fine, come ci dice questa mostra: tutto sta insieme, tenuto da un pensiero il cui fil rouge è, proprio, “tutto”. Chi se la sente di chiedere altro a Munari?

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