venerdì 20 agosto 2010
L'assetto di potere nato dall'ultima guerra è messo in crisi anzitutto dai suoi stessi vizi. Parla il politologo Martin Shaw.
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Nel corso del Novecento, l’idea di uno Stato mondiale, capace di unificare politicamente l’intero genere umano, è stata riproposta parecchie volte e secondo varianti molto differenti. Più di recente questa vecchia ipotesi ha trovato un nuovo alimento nell’esplosione dei processi di globalizzazione, ed è proprio dinanzi a tali dinamiche che Martin Shaw ha evocato l’immagine di uno «Stato globale». Per Shaw – docente di Relazioni internazionali all’Università del Sussex e autore di numerosi studi sulla trasformazione delle guerre, come Dyalectics of War (1988) e Genocide (2007) – lo Stato globale non è un progetto utopico, ma il risultato della crescente integrazione degli Stati occidentali. Nel suo testo Theory of the Global State (pubblicato nel 2004 da Egea con il titolo La rivoluzione incompiuta), Shaw mostrava come la costruzione di questo nuovo aggregato politico – diverso sia dai vecchi Stati nazionali, sia dagli imperi del passato – fosse minacciata da vari rischi e da profonde contraddizioni interne. Ciò nonostante, secondo Shaw, quella che conduce verso lo «Stato globale» rimane ancora una strada in qualche modo obbligata. Professor Shaw, alcuni anni fa, quando molti scrivevano del momento unipolare e del trionfo di un nuovo impero, lei parlava di uno «Stato globale». Che cosa intendeva con questa espressione?Nel 2000, quando è uscito Theory of the Global State, mi riferivo al disordinato, irregolare processo di formazione di un assetto, molto diverso dagli imperi del passato, che definivo come "conglomerato dello Stato occidentale globale". Questo Stato globale, secondo la mia lettura, è nato dopo la seconda guerra mondiale dalla dissoluzione dei grandi imperi e si è ulteriormente rafforzato nel corso della Guerra fredda e dopo il 1989-1991, con il crollo del blocco sovietico. In particolare, la stretta integrazione occidentale (fra Nord America, Europa e Giappone) e la più debole integrazione globale sono state fortemente condizionate dalle crisi geopolitiche e militari. Anche per questo, già allora non prevedevo la semplice prosecuzione di questa tendenza, ma sottolineavo la natura contraddittoria del processo, soggetto all’impatto delle crisi future.Cosa rimane dello «Stato globale»?Come avevo in parte previsto, le due principali crisi dell’inizio del XXI secolo hanno prodotto conseguenze enormi sulla formazione dello Stato globale (una formula che, ci tengo a precisare, è solo la sintesi di un concetto più complesso). In primo luogo, l’11 settembre 2001 ha inizialmente provocato una sorta di "cristallizzazione" regressiva del potere globale. In particolare l’amministrazione Bush, in occasione dell’invasione dell’Iraq, ha sovrastimato la capacità di leadership degli Stati Uniti, causando tensioni anche all’interno dell’Occidente. E in questo modo l’integrazione globale e persino quella occidentale sono state messe seriamente in discussione. In secondo luogo, la crisi finanziaria globale, a partire dal 2007, ha influito notevolmente, ma in modo ambiguo, su questo processo. Da un lato, la crisi ha dimostrato l’estensione dell’interdipendenza e così ha costretto ad approfondire ulteriormente il potere dello Stato globale, per esempio con il G20 e una serie di interventi coordinati. Dall’altro lato, però, la crisi ha portato alla luce i vizi del modello economico-finanziario dell’Occidente, indebolendolo in rapporto alla Cina, all’India e alle maggiori potenze emergenti. Tutto questo minaccia proprio il dominio occidentale e, dunque, accresce i margini di incertezza sul futuro a lungo termine della rete del potere globale.Ciò significa che siamo di fronte al declino dell’Occidente? E si tratta di un declino irreversibile?Gli Stati Uniti e l’Occidente sono evidentemente in una situazione di declino relativo, in rapporto a Cina e India, oltre che agli altri Paesi in ascesa. Si tratta di un declino irreversibile, dato l’ampio potenziale di sviluppo delle enormi società non occidentali. Ma, in ogni caso, l’Occidente conserva enormi risorse di potere, mentre gli Stati Uniti rimangono ancora oggi il principale centro di potere, dotato di un’enorme leva globale. Questa situazione sembra allora profilare una trasformazione graduale e la possibilità di consolidare un ordine globale più genuinamente bilanciato, al cui interno il mondo non occidentale potrebbe accrescere gradualmente il proprio peso nelle reti del potere globale.In questo quadro, dobbiamo considerare la Russia e la Cina come «nemici» dello Stato globale?I principali Stati non-occidentali – molti dei quali sono "quasi imperi" (e cioè Stati eredi di grandi imperi del passato, con società segnate da evidenti diseguaglianze e sistemi ancora largamente autoritari) – sono potenziali rivali dell’Occidente. Ma non necessariamente dei nemici. La Russia ha perso la capacità di essere un rivale credibile, mentre la Cina potrebbe senza dubbio diventarlo sul piano militare ed economico. Tuttavia, è almeno altrettanto verosimile che l’integrazione globale, economica, sociale e culturale, possa condurre lo Stato cinese (che, nel medio periodo, rischia di subire l’impatto di notevoli cambiamenti politici interni) verso il tentativo di modellare le reti del potere globale attorno ai propri interessi, più che verso la semplice opposizione all’Occidente».Cosa dobbiamo attenderci dal futuro? Possiamo essere ottimisti?Molto dipende dagli orientamenti politici della leadership occidentale e di quella cinese. Ma sarebbe sciocco essere semplicemente ottimisti. Le crisi degli ultimi anni hanno infatti messo in luce una straordinaria povertà di leadership, su tutti i versanti. Ed è anche per questo che oggi ci troviamo esposti al rischio di nuove crisi, di cui ancora non possiamo prevedere i contorni.
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