lunedì 14 novembre 2011
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​Esattamente dieci anni fa, nel 2001, Damiano Tommasi era diventato campione d’Italia con la Roma di Fabio Capello. Oggi, dopo 43 anni di reggenza dell’avvocato Sergio Campana, è lui il presidente del sindacato del calcio, l’Aic. Si è insediato il 3 maggio scorso e ad agosto è assurto subito a protagonista della grande buriana, lo storico sciopero della Serie A. Slittamento della prima giornata per la mancata firma del contratto collettivo.Appuntamento posticipato a giugno 2012. Ma non è che per allora si rischia un altro sciopero della A?«Fosse stato per me e per l’Aic, non ci sarebbe stato neppure quello di agosto, perché nessuno di noi vuole la guerra. Il problema è nella Lega di A, non si sa più quali possano essere gli interlocutori con cui confrontarsi. Tutte le società, grandi e piccole senza distinzioni, ormai ragionano ognuna con la propria testa».Non c’è da aspettarsi nulla di buono allora alla fine di questo campionato.«Io invece mi aspetto che ci si metta seduti a un tavolo e si sottoscriva un contratto collettivo che abbia lo stesso odore e le giuste finalità di quello che abbiamo appena firmato con la Lega di Serie B, che ha validità per i prossimi tre anni».A chi accusa l’attuale Aic di eccesso di sindacalismo fuori dalle logiche del calcio moderno, cosa risponde?«Noi non vogliamo difendere a tutti i costi il numero dei posti di lavoro, la nostra attenzione è sulla qualità del modo di lavorare. Ci sta a cuore la formazione dei calciatori, oltre che le condizioni migliori per poter svolgere questa particolare professione. Non è giusto continuare a gettare un calciatore insieme a una massa di altri 50 soggetti, che spesso non si sentono parte integrante di una società, la quale oltre a stipendiarli avrebbe il dovere di tutelare la loro dignità professionale».Perché questa tutela manca?«Perché il primo obiettivo dei presidenti non è il campo e il fare calcio, ma incrementare il business. Tutto questo accade da quando esiste un mercato che risponde a una logica perversa: se si comprano 20 giocatori, allora se ne devono vendere altrettanti. Quando ci siamo impuntati sulla questione dei “fuori rosa” era perché i presidenti invece di fare autocritica sull’anomalia del loro potere d’acquisto, volevano far passare tutta la questione sull’impossibilità della gestione di un gruppo “troppo numeroso” da parte dell’allenatore».In merito però, nessuno è andato a chiedere agli allenatori che cosa ne pensassero.«Ma se siamo arrivati al punto che l’allenatore viene esonerato già nel ritiro precampionato… Tanto poi se ne prende un altro e, magari, anche un terzo. E ognuno chiede altri 5 giocatori “indispensabili” per far funzionare la squadra. Così ecco che si arriva al 40° uomo in rosa, per uno sport che da più di cento anni mi pare che si giochi in 11 contro 11…».Insomma, il nostro non è certo un calcio-modello, come quello che lei ha conosciuto da giocatore in Spagna e in Inghilterra.«Ogni Paese ha un suo modello di calcio ed è sbagliato fare continuamente dei confronti. Così come ogni sistema ha i suoi problemi. In questo momento, paradossalmente, il problema del calcio italiano è diventato quello di modificare il ranking europeo. Non abbiamo l’obiettività di ammettere che la nostra macchina calcio va più lenta rispetto alle altre, diciamo invece che è sbagliato il “limite di velocità” imposto dall’Europa. Ma se il Palermo e la Roma escono con squadre modeste al primo turno in Coppa, non viene il dubbio che forse ci manca qualcosa sul piano tecnico?».Tecnicamente parlando, da un po’ scarseggiano talenti italiani e le nostre squadre sono piene zeppe di stranieri. Forse troppi?«L’Aic è Associazione italiana calciatori e non l’Associazione dei calciatori italiani. Chi arriva dall’Africa, come dalla Finlandia, deve essere tutelato come un qualsiasi giocatore nato e cresciuto in Italia. Certo è che nel Verona dello scudetto di Bagnoli, quando potevano essere tesserati solo due stranieri, Briegel e Elkjaer furono presi per far compiere un salto di qualità. E questo valeva per tutte le altre squadre e il gioco il 99% delle volte funzionava. Oggi di stranieri se ne prendono 20 e 11 vengono schierati dal primo minuto, ma solo per una ragione commerciale».Girando per i club, quanto si avverte la crisi economica all’interno delle società?«Le 20 società di Serie A si sono spartite 900 milioni di euro di diritti tv, quindi la crisi lì si avverte molto di meno. In B già c’è più sofferenza e in Lega Pro siamo arrivati al punto che portare avanti una società è un’impresa quasi eroica, per mancanza di visibilità in tv, per stadi che spesso non sono adeguati e per un campionato che non ha appeal».Non c’è una soluzione per salvare questi tornei?«Da tempo insisto sulla possibilità di inserire nel campionato di Lega Pro una seconda squadra delle formazioni di Serie A. Oggi gli unici introiti veri delle squadre della Prima e Seconda divisione sono dati dell’obbligatorietà di far giocare i giovani per poi riscuotere il premio di valorizzazione. Mettendo una Roma B o una Lazio Junior, si elimina ogni vincolo normativo, si porta più gente negli stadi e si valorizza al meglio il prodotto dei vivai. Molti mi stanno seguendo su questo progetto, ma per attuarlo serve il coraggio di svecchiare una certa mentalità».Vuol dire che il nostro è un calcio vecchio e pieno di preconcetti?«Di sicuro, anche per delle precise responsabilità mediatiche, siamo fermi all’idea che il calciatore che prende 5 milioni di euro lordi di ingaggio “li ruba”, mentre la società che l’ha pagato 10 milioni di euro netti, invece che 30, è “geniale” e sa come fare gli affari. Io vorrei che finalmente si arrivasse al pieno riconoscimento della figura del calciatore professionista e non più del milionario privilegiato. In A arrivano in pochissimi e quando hai giocato per 10-15 anni nella massima serie, posso assicurare che è come aver preso la laurea».Però i laureati veri nel calcio sono mosche bianche.«Vero, ma l’idea del calciatore ignorante ormai è in fuorigioco. La laurea del campo nel post-carriera serve a poco e reinventarsi nella società spesso è molto dura. Per questo da tempo abbiamo avviato dei master di orientamento per ex calciatori e anche dei corsi precarriera per i giovani, in modo da renderli consapevoli dei rischi e dei benefici che possono trovare una volta che si caleranno nel professionismo».Pensa che ci sia ancora qualcuno disposto, come fece lei, a giocare riducendosi lo stipendio al minimo sindacale?«La mia fu una scelta volontaria ed ero felice, dopo l’infortunio, di poter giocare anche per 1.500 euro al mese nella Roma. Purtroppo oggi invece al 50% dei tesserati in Seconda divisione lo stipendio sindacale, di 1.027 euro, gli viene imposto dal club in crisi e loro si piegano per necessità, anche perché pur di restare professionisti magari hanno accettato di giocare a 500 km da casa».Quando rientrò da quel grave infortunio, segnò un gol su assist di Antonio Cassano: i suoi problemi cardiaci hanno riaperto la discussione sui controlli medici.«Quella di Cassano è una patologia che si è manifestata all’improvviso e non poteva essere riscontrata se non con un esame molto approfondito. Il calcio italiano ha il miglior sistema sanitario a livello mondiale e siamo all’avanguardia anche nei controlli antidoping. I problemi ci sono ancora nel dilettantismo: le certificazioni e le visite mediche spesso sono inadeguate. Ma stiamo operando affinché si adottino gli stessi parametri di prevenzione e di controllo sanitario del professionismo».Il suo predecessore Campana ha appena salutato dicendo che si augura per il futuro di vedere “stadi pieni”. Lei invece ha detto che vorrebbe che “il calcio si prendesse meno sul serio”. Quali dei due obiettivi si realizzerà per primo?«Sono due aspetti che vanno di pari passo. Campana vedrà stadi pieni, appena il nostro calcio si prenderà meno sul serio e non vivrà più di esagerazioni. E ciò accadrà quando la smetteranno di vivere questo sport come se fosse una guerra».
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