lunedì 28 maggio 2012
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Questa è la storia di uno di noi. Di un uomo vero di sport che ha capito, e sta facendo di tutto per trasmetterlo al mondo, che il calcio prima di un’industria, di una combriccola di padroni senza scrupoli e di finti maestri della "malaeducazione" per le nuove generazioni, è un gioco meraviglioso, quanto la vita. Per questo Cesare Prandelli ha scritto (con il giornalista Giuseppe Calabrese) una biografia, Cesare Prandelli. Il calcio fa bene (Giunti) che dovrebbe essere letta in tutte le scuole, a cominciare dalle "scuole calcio". Dentro a questo libro (accanto ne riportiamo un brano), ci sono i ricordi teneri di un adolescente degli anni ’60, nato e cresciuto nella sana provincia italiana, a Orzinuovi (Brescia). L’ombelico del piccolo mondo antico in cui si è formato Prandelli, il ct della Nazionale che sta per partire con la prossima missione azzurra: gli Europei di calcio in Polonia-Ucraina. La sfida più importante nella sua carriera di allenatore che non ha mai smesso di essere quel ragazzino «pieno di stupore», che giocava nell’oratorio del suo paese, quello del "mitico" don Vanni. Lì è iniziata la corsa verso il grande calcio del piccolo Cesare, che si riconosceva come parte integrante di «due famiglie: quella naturale e quella acquisita: la squadra». La squadra era quella sorta dalla «squadretta», messa in piedi dall’«allenatore ragazzino», Giuliano. «È morto giovane, ma Giuliano ha lasciato un ricordo indimenticabile nel nostro cuore perché è stato un innovatore. In un paesino sperduto della provincia di Brescia, questo ragazzo nato per il calcio ha creato il Nagc, il Nucleo addestramento giovani calciatori». Da Giuliano, Prandelli ha imparato come si forma un ragazzo attraverso lo sport e due concetti basilari, «la sintonia e la squadra». Una squadra che era quella che nasceva dalla selezione naturale dell’oratorio. «Sarò un ingenuo, ma anche adesso che faccio l’allenatore della Nazionale, credo ancora nel mio calcio, quello delle sfide, quello del campetto, delle porte fatte con i sassi e le pile di maglioni, dove il business sono la fantasia e la passione... Noi ragazzi dell’oratorio non pensavamo a un futuro da professionisti, io non sognavo di diventare ricco e famoso, mi bastavano il pallone, un campo e gli amici per giocare». Gli amici, come Domenico che seguì, con il cuore dentro agli scarpini, alla Cremonese. Cesare ce l’ha fatta, da lì poi è arrivato fino alla Juventus di Trapattoni, così come l’altro suo grande amico di una vita, il campione del mondo a Spagna ’82, Antonio Cabrini, che alla Cremonese debuttò in prima squadra tre mesi prima di lui. Domenico invece è entrato a far parte della squadra di quei giocatori che non sono arrivati mai, ma non vive di rimpianti, fa il venditore ambulante di formaggi e Cesare non l’ha mai perso di vista. «Il venerdì, giorno di mercato, vado a trovarlo. Mi metto accanto a lui, assaggio e chiacchiero. Le signore mi riconoscono e dicono a Domenico: "L’è lu?". E lui risponde: "L’è lu, l’è lu"». Cesare saluta cordiale e passa, dribbla il "successo" che come per Luciano Bianciardi, anche per lui altro non è che il participio passato di succedere. Lezione imparata da quei presidenti "pane e salame" che ha avuto a Cremona: Domenico Luzzara e Giuseppe Miglioli che il salumificio ce lo aveva sul serio. All’Atalanta i Bortolotti «che non smetterò mai di ringraziare» e poi alla Juventus con Giampiero Boniperti, maestro di stile e padre di intere generazioni di grandi campioni, che per Prandelli diventano tali, «solo se sono anche grandi uomini». E se sanno riconoscere i suoi tre punti cardine: «Impegno, sacrificio e rispetto». Un tridente di moralità fissato molto prima del Codice Etico che ha voluto per i calciatori della Nazionale. L’impegno e il sacrificio si traducono in senso di responsabilità, quello che Cesare ha sperimentato a 16 anni: «Quando è morto mio padre mi sono ritrovato capofamiglia. Ho visto le mie due sorelline private della figura maschile e mi sono dovuto assumere tutta la responsabilità», ha raccontato ad "Avvenire". Il rispetto è quello che prima di tutto chiede «ci sia, sempre, nei confronti dell’avversario». Negli anni in cui allenava la Fiorentina, mutuandolo dal rugby e facendolo entrare a fatica nel calcio, ha introdotto il "terzo tempo": l’abbraccio e la stretta di mano a fine gara, qualunque sia stato il risultato. Nella sua classifica mette sempre «al primo posto: gli affetti e la famiglia». Per questi, in silenzio, senza nessuna concessione alla tv del dolore, nel 2004 ha rinunciato al contratto milionario della Roma per stare vicino a Manuela, la moglie malata di cancro. «C’era una promessa con la Manu: se la chemio fosse stata troppo invasiva io avrei mollato tutto per starle a fianco», confessò nel nostro ultimo incontro. Manu cinque anni fa è volata in cielo, ma a Cesare ha lasciato due gemme preziose, Carolina e Nicolò che ora fa parte dello staff tecnico della Nazionale di papà. Un padre che prova a far crescere altri "figli", anche quelli più scapestrati, come Balotelli e Cassano, con i quali dice: «A volte le parole non servono, basta guardarsi negli occhi per capirsi... Il calcio è anche questo». Ma il calcio che fa davvero bene e che devono tenere a mente dirigenti, allenatori e soprattutto i genitori, è quello che riporta al potere la fantasia. «Se fin da bambini abituiamo i ragazzi a usare scarpe perfette, pallone perfetto, il terreno di gioco perfetto, quel ragazzo non tirerà mai fuori la fantasia» Non è la regola di Prandelli, ma l’eterna legge dell’oratorio, in cui «il più bravo lo sceglie la strada». La stessa strada sulla quale è cominciato il suo sogno, portandosi dietro l’odore di pane delle cascine, il profumo dell’erba del campo di un paese di campagna e quelle sfide di gioia sudata che finivano al tramonto, al triplice rintocco della campana dell’oratorio di don Vanni. È rimasta lì, l’anima di questo fratello d’Italia del Cesare che prima di volare a "Euro2012" lancia il suo appello alla nazione: «Sosteniamo i nostri ragazzi, prepariamoli alla vita. L’obiettivo è l’uomo, il calciatore viene dopo».
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