mercoledì 18 luglio 2012
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​«Mi fa paura incontrare persone che parlano solo di opera come se fosse l’unica realtà. Ma quella non è la vita: la vita è fuori, nelle relazioni con gli altri, negli affetti». Dichiarazione che, pronunciata da uno dei più quotati registi di lirica, non può non fare un certo effetto. Damiano Michieletto, classe 1975, ha progetti nei maggiori teatri del mondo: il prossimo anno firmerà la sua prima regia per la Scala, Un ballo in maschera di Verdi, ma il 1 agosto lo aspetta il debutto a Salisburgo con la pucciniana Bohème, opera di punta dell’edizione 2012 del festival austriaco, che vedrà sul podio un altro italiano, Daniele Gatti. Prima di Michieletto a Salisburgo avevano affidato regie liriche solo a Giorgio Strehler e Luca Ronconi. «All’estero i registi italiani non godono di buona fama: questa sarà un’occasione – e dunque una responsabilità – per far riguadagnare all’Italia credibilità internazionale. Ma nonostante tutto resto con i piedi per terra perché la vita non si esaurisce in palcoscenico».Quale il centro della sua vita, Michieletto?La mia famiglia, che mi insegna l’umiltà, dote rara nel mondo dello spettacolo. Cerco di passare più tempo che posso con mia moglie e i miei figli organizzando prove e spostamenti in base alle esigenze familiari. Sarà impegnativo visto che in pochi anni è diventato il regista lirico italiano più richiesto.Non sono uno di quelli che dice sempre sì: ho rifiutato progetti anche prestigiosi in cui, però, non credevo o che non mi davano possibilità di esprimermi. Quando lavoro voglio i miei tempi per preparare uno spettacolo che non sia fatto tanto per portare a casa un contratto o la presenza in un teatro famoso. E oltre alla lirica una volta l’anno mi piace dedicarmi alla prosa e lavorare con compagnie di giovani: quest’anno ho diretto Il ventaglio di Goldoni che sarà ancora in tournèe nel 2013.Veniamo alla "Bohème" di Salisburgo, moderna e innovativa come tutti i suoi spettacoli?Ambientata oggi, certo, ma con un tocco di visionarietà. In scena una grande finestra che occupa tutto il palco e che nel secondo e terzo quadro si spalanca su un’enorme Google Maps di Parigi. I personaggi sono reali perché quella di Puccini è una storia di ragazzi che non vogliono o non sanno crescere: vivono con l’illusione di non avere bisogno di nulla per il futuro, giocano, dall’inizio alla fine e solo quando gli arriva addosso la morte iniziano a crescere loro malgrado. La realtà sarà durissima perché di sogni e illusioni non resterà nulla e, con Mimì morta tra le braccia, Rodolfo, Musetta e Marcello si ritroveranno come barboni in mezzo a una strada a chiedere l’elemosina. Per via della crisi?Per la loro incapacità di vivere. Nei protagonisti di Bohème non sento nessuna tensione creativa forte come non l’avverto in tanti ragazzi di oggi che per affermare loro stessi, per dire che esistono fanno di tutto, compreso buttare via la propria vita. Una tentazione che ho avuto anch’io a vent’anni, ma che sono riuscito a superare grazie a famiglia e amici: oggi la vedo più dura.Raccontare l’opera in abiti moderni è una necessità o una moda?Il mio primo compito come regista è quello di pormi domande problematiche sul testo pensando che non è importante l’ambientazione, ma il fatto di riuscire a rendere credibili e moderni i personaggi: faccio Bohème in abiti moderni, ma anche Don Giovanni in costumi del Settecento e in entrambi i casi sono convinto di essere fedele alle intenzioni dell’autore. Piuttosto, quando mi offrono un titolo, mi chiedo qual è la necessità di una nuova produzione: perché fare una nuova <+corsivo>Bohème <+tondo>quando ce ne sono già in circolazione centinaia? Si fa se c’è qualcosa da dire altrimenti si rischia di fare solo pasticci che screditano il lavoro di chi vuole davvero rinnovare l’opera. In Italia c’è spazio per questo rinnovamento?Abbiamo un sacco di risorse e non è vero che mancano i soldi. Il problema è che occorre cambiare l’organizzazione: i teatri che spendono cento devono produrre cento, da noi invece si spende cento e si produce venti. E nessuno dice nulla. Dobbiamo inventarci spazi, farli lavorare, produrre sapendo che se non siamo convincenti ci mandano a casa. L’ho imparato lavorando agli spettacoli per bambini dell’Orchestra Verdi di Milano: non c’erano soldi e dovevi inventarti con poco soluzioni che catturassero l’attenzione.
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