venerdì 2 aprile 2010
COMMENTA E CONDIVIDI
Un mese fa, vedendomi trarre da una cartella qualche appunto su tale questione, Rita Levi Montalcini, che aveva visto tra le righe la parola Dio, mi ha chiesto se fossi credente; dopodiché, con la sua grazia, quasi volesse discolparsi, disse: «Io non lo sono, ma penso a quale vuoto andrei incontro se non potessi pormi, nella mia vita, il problema di Dio». Nelle ultime pagine del Nuovo Testamento, l’Apocalisse di Giovanni annunzia che «non ci sarà più morte, né lutto, né lamento, né fatica, perché le realtà di prima saranno tutte passate», le ricordai. Aggiungendo: non ardirei sperare tanto, mi basterebbe vivere la realtà di adesso sapendo che al dono della vita occorre rispondere lealmente, senza stringere l’animo, ma lasciandolo aperto a tutto, anche alla speranza. E pensammo alle parole di Goethe, «Più luce!», pronunciate sul letto di morte. Il problema coinvolge tutti, dalla dimensione dei deboli, degli attardati e degli sconfitti a quella dei cosiddetti «poteri forti», cominciando dalla politica, dalla finanza e dall’economia, senza dire della televisione, della pubblicità e, in generale, delle strutture linguistiche identificabili nell’informazione, nell’intrattenimento, nel cellulare, in internet, nel digitale, in tutte quelle forme del mondo mediatico capaci di creare fenomeni che, consolidandosi, danno luogo, progressivamente, a veri e propri linguaggi, costumi, culture. Lo strisciante indebolimento etico e civile di questo tempo attraversa ideologie, sistemi politici e pulsioni religiose in molte parti del pianeta; compreso l’Occidente, dove il progredire della delusione e del disincanto, dovuti alle prove degli ultimi due decenni, ha prodotto disincanto e inquietudine. Questo clima avrà il suo apice inatteso e sconvolgente nella tragedia delle Torri Gemelle. Da quel momento prende corpo, si protrae ed è in atto la specie più alta di allarme che la modernità abbia conosciuto alla fine del secondo conflitto mondiale; quando non solo nella filosofia, ma anche nel pensiero civile e religioso, si tornò a parlare dell’assenza di Dio, addirittura della sua morte. «Dov’era Dio ad Auschwitz, a Dachau, a Treblinka?», si continuava a chiedere. «Non c’era», rispondevano i fautori di una teologia temeraria, che portava all’estremo la solitudine di quanti erano già alle prese con la delusione. Dopo la Shoah alla «questione di Dio» si aggiunsero eventi che hanno trasformato il modo di leggere le vicende del mondo: il più drammatico è stato la caduta del potere sovietico, il cosiddetto «impero del male», cui seguirà il drammatico bilancio dei totalitarismi e dei loro orrori; e l’Occidente dovrà anch’esso interrogarsi sul suo rapporto con la storia del pianeta, specie quando si affacceranno i lasciti di vecchie imprevidenze e impunità. Di fronte a domande diventate assolute s’imponevano risposte idonee, a loro volta definitive. Cos’era successo? Bisognava che ogni risposta si trasformasse in un esame di coscienza, e il nuovo lo esigeva come non mai. Occorre, si diceva, che la mistica della militanza venga superata dall’etica della persuasione; l’esemplarità dei modelli sia messa in causa, di continuo, dalle verifiche umane e politiche; l’ideologia si liberi del mito per confrontarsi con la vita, e il privato non diventi, necessariamente, tutto politico, perché in una società che accettasse questo dogma non rimarrebbe spazio per le libertà personali; la scienza cessi d’essere una conoscenza senza amore, e prima capisca ciò che ci serve, poi quanto è in grado di darci; il progresso, infine, si trasformi, per paradosso, in "un errore dopo l’altro", a patto di far giustizia del precedente, di cancellarlo, per sempre. Mai, prima di allora, si era capito con tanta chiarezza, grazie a un sistema informativo sempre più onnivoro, che una grande conciliazione, una sorta di concilio universale, così andando le cose sarebbe stata l’ultima utopia rimastaci. L’apocalittico Wells – autore tra l’altro de "La guerra dei mondi" – aveva addirittura previsto per il futuro «una continua rincorsa tra l’informazione e la catastrofe». Domandai al grande storico francese Fernand Braudel che cosa pensasse del rapporto tra la storia, la nostra natura, e Dio. Rispose: «Non credo che la storia possa tralasciare la nostra natura, e neppure Dio. Perché anche Dio ne fa parte: sia una realtà o una creazione degli uomini, egli è nel cuore della Storia. In realtà, per l’uomo, e quindi per la sua storia, egli non finisce mai di morire in croce, cioè di rinascere. Quanto all’uomo, la sua imperfezione e i suoi dubbi sono la storia della sua ricerca». Braudel era laico, e dava per scontato che lo si considerasse «niente di più, ma neanche niente di meno». Ecco il punto: perché non dire che il delirio fondamentalista conduce a una lettura tragica del peccato e della redenzione? Perché tacere che il Figlio rimarrà inchiodato a quei legni se non dichiareremo che è tuttora sulla croce, per tutti, a rappresentare la stessa violenza di ieri e di oggi? Perché non voler vedere, come ha fatto Chiara Lubich, l’immagine dell’Abbandonato, cioè del tradito anche da noi? Quel Gesù, insomma, seguita a morire per colpa dei torturatori, dei mandanti, degli ignavi, ma perché una devozione malintesa ne ha trasformato la storia nella mitologia del dolorismo e del martirio?
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: