venerdì 27 agosto 2021
Leggere il libro della natura: per l’antropologo Eduardo Kohn l’esperienza maturata presso gli indios ecuadoriani diventa occasione per rivalutare la funzione simbolica del linguaggio
La foresta amazzonica

La foresta amazzonica - Crystal Mirallegro / Unsplash

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La leggibilità del mondo di Hans Blumenberg è stato uno dei libri fondamentali nel panorama del tardo Novecento. In quel saggio, apparso nel 1979, il pensatore tedesco ricapitolava le vicende del liber naturae, la metafora che attraversa per intero la cultura medievale per poi trionfare in età moderna. È Galileo, infatti, a rivendicare la perspicuità del “libro della natura” come criterio decisivo per il suo metodo scientifico. Ma la contemporaneità, si domandava Blumenberg, è ancora in grado di decifrare la scrittura del mondo? La realtà oggi si presenta ancora come un sistema coerente di coerente di segni?

Nella terminologia specifica di cui l’antropologo Eduardo Kohn si serve nel suo Come pensano le foreste (traduzione di Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri, nottetempo, pagine 448, euro 20,00, con una prefazione di Emanuele Coccia) la risposta all’“ancora” di Blumenberg potrebbe essere formulata ricorrendo a una curiosa combinazione di avverbi, “sempre già”. Si tratta, in apparenza, di una nozione specifica dei runa, la popolazione indigena della foresta amazzonica ecuadoriana presso la quale Kohn ha lungamente soggiornato.

Prima di proseguire, andrà subito sottolineato che Come pensano le foreste (edito originariamente nel 2013) è un libro attorno al quale si è sviluppato un ampio dibattito internazionale, che lo candida a diventare uno dei titoli più rappresentativi del secolo che stiamo vivendo. In questo senso, l’accostamento a La leggibilità del mondo non è dovuta solo a all’affinità tematica. Laddove Blumenberg partiva dalla filosofia per delineare un’antropologia, Kohn procede in direzione contraria: l’obiettivo della sua ricognizione etnografica consiste in una ridefinizione delle categorie filosofiche. Per dirlo con le sue parole, occorre “aprire il pensiero” in modo da renderlo accogliente alla visione dell’“oltre”. Che non è un luogo, ma un metodo.

Un sistema di segni, di nuovo. O, a voler essere puntigliosi, una semiosi. Nella struttura di Come pensano le foreste il magistero semiotico di Charles Sanders Peirce riveste un ruolo non meno importante delle ricerche sul campo di Lucien Lévy-Bruhl o Claude Lévi-Strauss. Da Peirce deriva la tripartizione dei segni in icone, indici e simboli, alla quale Kohn fa ricorso per tutta la trattazione, alternando la descrizione di episodi caratteristici della sua permanenza tra gli indios a circostanziati approfondimenti concettuali. La tesi portante del libro è che ogni essere vivente agisce all’interno di un sistema di segni, che possono limitarsi a riprodurre l’oggetto (è il caso del’icona) oppure suggerirne la presenza attraverso indizi (questo è il compito dell’indice). A queste due funzioni basilari, nell’essere umano, e solo nell’essere umano, si aggiunge la facoltà di accedere al simbolo, che introduce un elemento di valore, permettendo al linguaggio di accedere a una dimensione morale.

Insistere sulla pervasività del segno, condivisa secondo modalità specifiche anche da piante e animali, non comporta affatto una mortificazione del pensiero umano. Al contrario, secondo Kohn, questa ulteriore declinazione di “pensiero aperto” permette di affrontare con accresciuta consapevolezza l’enigma che la Sfinge pone a Edipo. Anche in quella circostanza, com’è noto, l’essere umano viene paragonato a un animale: l’unicità della sua condizione di bipede rappresenta una mediazione tra l’iniziale necessità di procedere ferinamente a quattro zampe e la successiva adozione di uno strumento, il bastone, che si configura come protesi tecnologica.

I runa della regione di Ávila, ai quali Kohn si riferisce in modo diretto, si trovano a loro volta in una posizione di crocevia. In quanto indios mansos (letteralmente, “addomesticati”) partecipano sia della connotazione ancestrale del puma, ossia del predatore, sia di quella civilizzata dell’amo , il “signore bianco”. Le storie riportate da Kohl si muovono all’interno di questo triangolo del “sempre già”, riservando molto spazio ai sogni e alla loro interpretazione. Le donne, per esempio, si abituano a riconoscere le diverse articolazioni dei guaiti che i cani emettono durante il sonno, mentre sui cacciatori ricade l’onere di distinguere i presagi fausti dagli infausti. In sogno, racconta Kohn, può anche capitare di addentrarsi nel territorio dell’“oltre”, sul quale regnano i signori della foresta e nel quale si trasferiscono i morti dopo aver lasciato le loro spoglie sulla terra.

Lo studioso si richiama a credenze di tipo animista, che nell’esperienza dei runa convivono con una fede cristiana tutt’altro che superficiale. Non diversamente, viene da osservare, accadeva nelle campagne dell’Europa ancora in età moderna, quando il principio della “leggibilità del mondo” era istintivamente comprensibili per i semplici e per i sapienti. Del resto, insieme al mito della Sfinge, Kohl rievoca spesso l’immagine dantesca della “selva oscura”, quasi a stabilire una continuità dei segni e delle forme a dispetto di ogni eventuale discontinuità storica o geografica.

Pensare la realtà come sistema di segni comporta di per sé la convinzione che la realtà abbia un significato e che questo significato trovi espressione compiuta attraverso il simbolo. Non fosse che per questo, Come pensano le foreste è un libro che non può non chiamare in causa anche la riflessione teologica.

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