sabato 9 agosto 2014
​Il politologo Pasquale Ferrara: «Solo in un mondo dove ogni stato ha pari dignità c'è vera globalizzazione» 
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La nuova crisi a Gaza, con quelle in Siria, Iraq e ancora Libia: le ennesime dal 2011 nel Medio Oriente. Dalla caduta del muro di Berlino e degli schematismi della guerra fredda – ormai un quarto di secolo fa – l’impressione diffusa è di un irriducibile disordine mondiale. "La politica inframondiale" (Città Nuova, pp. 290, euro 28), l’ultimo saggio di Pasquale Ferrara, segretario generale dell’Istituto universitario europeo di Firenze, diplomatico e docente di politica internazionale, propone una nuova analisi delle relazioni internazionali partendo da un presupposto semplice quanto rivoluzionario: «ogni politica è politica interna mondiale». Pasquale Ferrara, suggestiva è l’immagine di Charles Kupchan di un "mondo di nessuno". Da dove iniziare per analizzare le relazioni internazionali in questa nuova stagione che lei chiama post-globale? «Mettendo in discussione l’idea di un "mondo di nessuno": in realtà siamo di fronte a una traslazione di potere, a un mondo che sta diventando meno occidentale. La sensazione di spaesamento che abbiamo in Europa non si avverte in India e Cina. Una nuova situazione che non necessariamente ci porta verso maggior disordine: anzi c’è chi sostiene che la Guerra fredda rappresentava il massimo di disordine possibile perché una "guerra per errore" avrebbe potuto distruggere interi Paesi. Di certo, però, nella transizione da un ordine a un altro c’è una fase di incertezza in cui si insinuano gli attori destabilizzanti. Dove ci sono istituzioni deboli e un conflitto i gruppi legati in una sorta di franchising ad al-Qaeda sfruttano la situazione per obiettivi di potere. Quello, per esempio, che sta avvenendo anche in Iraq». Un cambio di paradigma ancora in corso. Lei, rispetto alla classica divisione fra politica interna e relazioni internazionali, propone la definizione di "politica inframondiale": ogni politica è politica interna mondiale. Vale a dire? «Non volevo creare un altro neologismo, ma credo che servissero concetti nuovi per descrivere dei fenomeni nuovi. "La politica inframondiale" vuole descrivere l’attuale situazione ormai ben al di là della globalizzazione che ha creato una interconnessione molto stretta tra varie parti del mondo: pensiamo ai cambiamenti climatici, l’emigrazione, alla crisi finanziaria del 2008. La "continuità dello spazio politico" è una realtà sotto i nostri occhi: un fenomeno che può essere letto come una sorta di politica interna globale. Difficile oggi affermare un qualunque interesse se non tenendo conto di quello che capita di determinante al di fuori delle frontiere nazionali e che la politica nazionale semplicemente non controlla». Il motore immobile del nuovo ordine mondiale, lei sostiene, potrebbe essere la fraternità, la "sorella povera" nella riflessione politica rispetto a libertà e uguaglianza. Questa riscoperta come si applica nelle relazioni internazionali? «Si aggancia all’idea della continuità dello spazio politico. Non è più possibile pensare lo sviluppo di un Paese senza tener conto di quello che accade a decine di migliaia di chilometri di distanza, né pianificare un’azione senza tener conto delle conseguenze globali. L’ex segretario di Stato Madeleine Albright, definì gli Usa la "nazione indispensabile". Vero se riferito agli Stati Uniti, ma deve essere ugualmente vero per tutti i Paesi e per tutti i popoli: oggi siamo tutti indispensabili». Come strutturare su queste premesse una ipotesi di governance globale? Pensando ancora al Medio Oriente, lo scontro tra forti identità etnico-religiose sembra negare qualsiasi governance basata sulla fraternità... «In primo luogo globalizzazione non equivale a universalità: la globalizzazione è lo strumento che ha veicolato un modello di sviluppo che ha le sue radici in occidente. Gran parte dei fenomeni conflittuali sono una sorta di ultima resistenza alla globalizzazione. La governance vuol dire un mondo multipolare che tenta di accordarsi su delle grandi direttrici di sviluppo. Questo multipolarismo che si basa molto ancora sulla sovranità – il G20 è fatto da 20 Paesi sovrani più alcune istituzioni multilaterali – non è realmente riconosciuto in molte parti del mondo. Il G20 non ha nulla a che fare con le istituzioni comuni create in Europa e alle Nazioni Unite. Se non si procede alla multilateralizzazione, cioè a dare maggiore legittimazione alla governance mondiale avremo grossi problemi. Non si tratta di far entrare altri in un "club ristretto", ma di rendere più legittime e rappresentative le istituzioni della governance». Invece, lei sostiene, gli Stati devono avere un’etica interpersonale. Come attuarla? «Un contributo fondamentale viene dalla tanto bistrattata Europa: aver messo sulla scena internazionale il tema dell’integrazione. Non esiste nessuna altra area del mondo che abbia messo in comune la sovranità per il raggiungimento di obiettivi condivisi. Al netto di tutti i problemi (tecnocrazia, politica di rigore economico ecc. ecc.), credo che questa sia una strada da riscoprire. Non a caso, per esempio l’Ansean e il Mercosur oggi guardano all’integrazione europea come a una novità. L’altro aspetto è quello della responsabilità di chi governa: pensare di poter fare una politica estera separata dalla politica internazionale è stata un’illusione controproducente. Anzi, credo che l’impegno per l’integrazione vada messo con forza sul tavolo proprio nelle aree di crisi, dove sembra impossibile. Per esempio nel Medio Oriente l’integrazione per settori, funzionale, potrebbe incominciare dall’acqua come in Europa abbiamo cominciato dal carbone e dall’acciaio». L’Europa, nonostante le lentezze e le perplessità, come modello? «Non parlerei di modello, ma di un processo che può essere declinato in modi diversi. Noi abbiamo avuto questa immagine dell’Ue: l’integrazione è iniziata solo dopo aver raggiunto la pace al termine della Seconda guerra mondiale. Credo che la questione debba essere capovolta nelle aree di crisi: è proprio l’integrazione che conduce alla pace».
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