mercoledì 22 agosto 2012
​La poetessa definisce il suo stile "sbraitar cantando".
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Secondo una sua impaziente ma ben pensata definizione, lo stile che le è proprio sarebbe una sorta di «sbraitar cantando». «Il verso si trova all’inizio della Stortura – specifica la stessa Jolanda Insana –, la cui stesura risale agli anni Novanta, segnati da stragi di mafia, da inquietanti eventi, nonché dalla spettacolarizzazione della politica». «Un’altra dichiarazione di poetica – continua l’indomita poetessa al suono sempre acceso dei ricordi – si legge in Fendenti fonici: "e ricòrdati che i meglio colpi / sono sulla faccia / i meglio graffisegni sulla carta / non dimenticando il pugno allo stomaco"». Esibite queste animose credenziali, alquanto viscerali nella loro pur sorridente e sorvegliata enunciazione, la tenace siciliana allinea (una dopo l’altra, e con disciplinata ostentazione di bravura) le molte domande che friggono dentro quella virtuosistica, affilatissima scrittura da lei caparbiamente modellata.   Come si ottiene la "patente" di poeta? Quali strade è necessario percorrere? Nel suo caso, in che modo ci è arrivata?«Patente? e chi la rilascia? Eppure, a pensarci, ci sono poeti autopatentati che non sanno guidare. Ho pubblicato il primo libro, Sciarra amara, presentato da Giovanni Raboni che lo aveva accolto nel Primo quaderno collettivo della Fenice, nel ’77, cioè a quarant’anni, come succedeva un tempo e forse succede ancora. Anche Marziale pubblicò il primo libro a quarant’anni. E poiché scrivere è cercare e ricercare, sin dagli anni cinquanta andavo sperimentando forme diverse e generi vari, e ho un archivio pieno di brogliacci in prosa, di raccoltine di versi, di pastiches traduzioni e imitazioni, di monologhi epigrammi e racconti. Qualche stralcio di questo apprendistato è stato scelto per Satura di cartuscelle, curato da Giancarlo Alfano (Perrone, 2009), un librino che integra Tutte le poesie (1977-2006) dell’Elefante Garzanti del 2007». Quanto spazio ha il sentimento in una poesia così fortemente intrisa di umori civili, fonici, satirici, nonché ludici e dissacratori come la sua?«È una poesia di passione e compassione dove la biologia (della parola come della terra e della bella famiglia d’erbe e d’animali) soppianta la biografia. E l’io lirico è messo al palo, e s’impone la voce corale. Non sono io che dissacro, è la vita che è dissacrata, lo vedo, non mi sfugge. Dappertutto imperversa il teatrino della crudeltà, e non è consentito "pargoleggiare" - avrebbe detto l’autore del <+corsivo>Sublime<+tondo> - o bamboleggiare. Mi piace chiudere con questi versi: "Sono molte le cose / che devi disimparare / per non baciare e tradire"».Ha notizia di sonorità, melodie, canti, ritmi di tempi lontani che si sono depositati, magari del tutto inavvertitamente, nei suoi versi?«Dominante è la musica percussiva, e non melodica, che viene da lontano, dall’Oriente, dall’Africa. A Monforte, in Sicilia, che è il paese dove sono stata sfollata, scappando dalle macerie di Messina, nella chiesa di Sant’Agata fanno ancora la <+corsivo>katabba<+tondo>, una specie di concerto di campane e tamburi. E poi c’è la parlata aspra delle mie contrade, la lingua dello Stretto, ci sono le prime esperienze acustiche: le nenie e i lamenti funebri, le novene e le cadenze del rosario, le voci dei banditori e dei venditori ambulanti, ma anche l’urlo delle sirene, i bombardamenti e i boati di terremoto. E poi nel dopoguerra arrivò il jazz. E poi c’è quello che non so».Trattando delle sue poesie e di quelle di altri, Giovanni Raboni ebbe a scrivere: «… la poesia continua davvero a godere, da noi, di un’eccellente salute». Se la sentirebbe di sottoscrivere l’affermazione di Raboni anche parlando della situazione attuale? «Si può ampiamente sottoscrivere, anche se in questi decenni è molto mutato il contesto politico-sociale, antropologico-culturale. La poesia è fuori del mercato, gode di libertà e buona salute, e in tanti sperimentano nuove forme di oralità. Tuttavia non manca chi sogna il mercato e spaccia il facile per semplice tenendosi lontano dal complesso (pensiero o discorso) che gli pare complicato, e soprattutto ha una lingua di plastica, buona per tutti gli usi. Com’è sempre avvenuto nella storia e come si vede dall’Antologia Palatina in poi, molti giovani rinunciano alla ricerca di uno stile proprio e scrivono a "calco" diventando interscambiabili».Nel magmatico universo poetico da lei edificato, abbondano parole d’invenzione, che nessun vocabolario riporta. L’idea che ha della lingua coincide con qualcosa di vivo, vitale, vitalistico, perennemente in movimento e non facilmente incasellabile tra le pagine di un comune dizionario?«La lingua è viva, si trasforma e muore, e quando una parola esce dall’uso sul vocabolario è segnata da una croce. Non so quante lingue, ma sono moltissime, ogni giorno muoiono al mondo. La mia lingua è ricca di neologismi – puri suoni talvolta – perché la parola è sempre inadeguata, manchevole, e quando non trovo invento».L’attenzione che i suoi versi lasciano trasparire nei riguardi del corpo e della corporeità, indagata in tutte le molteplici sfumature e possibilità espressive, è da ricondurre magari a qualche esperienza personale, a qualche ferita non ancora del tutto rimarginata? «Noi siamo il nostro corpo e con questo viviamo sul corpo della terra, dentro il corpo sociale: malata è l’aria, malati sono i campi, malate sono le bestie, inquinato è il cibo che dovrebbe nutrirci e non avvelenarci. Vogliamo fare finta di non vedere, di non sapere, e confondere gli orrori quotidiani con le ferite personali? confondere la storia con la biografia? Fare finta di non sapere che in Italia da gennaio più di cento donne sono state ammazzate da mariti o fidanzati? Fare finta di non vedere che i vecchi sono maltrattati e abbandonati? che i malati di Alzheimer sono picchiati e torturati? Da mesi si è attivata per l’estate la campagna in difesa degli animali perché cani gatti e pappagalletti di casa non siano abbandonati. Ma dei malati, degli anziani, dei disabili non si parla. In che mondo viviamo? Non ci sono rose e fiori. Ma il conformismo è imperante, e passano le parole d’ordine, e tutti a soffrire per il povero cane abbandonato dai padroni che vanno in vacanza. E questa è una linea di fuga dalla realtà, dalla storia. Come si può mai giubilare mentre ragazzini in fila per le caramelle vengono trucidati? Quando ogni giorno è un massacro? Violenza crudeltà ingiustizia e guerra, ecco le grandi offese, le ferite. Le guerre non finiscono mai, e io sono sopravvissuta ai bombardamenti a tappeto di Messina».La poesia, allora, può essere una forma di riscatto: da soprusi, condizionamenti, oltraggi, offese, tradimenti, brutalità, violenze fisiche, psicologiche e morali di ogni tipo?«Nessun riscatto, nessuna consolazione. La poesia in astratto non esiste, c’è la poesia che si fa, secondo la grande lezione raboniana, dentro il tempo e lo spazio, contro l’annichilimento e l’autodistruzione del mondo».In tempi recenti si è spesso sentito parlare, a proposito della politica o di altre autorevoli branche della nostra società, di caste o di «lobby». Ne esistono anche tra i poeti?«Il fenomeno è vecchio come il mondo e la tentazione del voto di scambio è forte. Esistono però ammirevoli e autorevoli eccezioni che sono più numerose di quanto sembri e ci fanno bene sperare: la poesia non può che essere libera da servitù e sottomissioni, altrimenti le manca il respiro e crepa. La libertà, ieri come oggi, è un bene irrinunciabile per non essere soggetti omologati. Le creature libere fanno vere (e non finte) democrazie, e ugualmente fanno vere e non finte poesie. Non ci servono nonne-speranza che sbrodettano in parlamento né poeti-profeti che pontificano gettando ponti sul vuoto e scarselle al padrone».«Anche le parole si avviano al calvario / portando la croce / e morte escono dal dizionario" (da «La tagliola del disamore», 1999-2002). Di quali croci si fanno carico oggi le parole?«Si fanno carico di falsità e menzogne, cioè di tradimento che è peccato gravissimo. Ne è responsabile chi piega le parole a malo uso, e mente. Le parole in sé sono innocenti, neutre».

 

L’INEDITO LA BOCCA si riempì di bit e sconcezze come una testa vuota ammiccando al carrello dei bolliti immonda e vischiosa inghiotte l’oro blu della terra ci succhia la nostra acqua e se la spassa facendo miliardari profitti dalla nostra roba si spalanca e si sganascia avidamente attaccata a ventosa sull’immondizia fischia ridente per invitare i compari al banchetto degli intrallazzi e del malaffare infame e calunniatora rutta bestemmie e se ne vanta Jolanda Insana

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