mercoledì 13 settembre 2023
Una serie di casi di eresia poco studiati nella Firenze del ’500 spinge lo storico Lucio Biasori a indagare le logiche del “controllo sociale” attraverso il Sant'Uffizio e le corti civili dell’epoca
Battaglia tra cattolici ed eretici al tempo di S Pietro martire (affresco, Firenze, Santa Maria Novella)

Battaglia tra cattolici ed eretici al tempo di S Pietro martire (affresco, Firenze, Santa Maria Novella) - .

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Il potere, tantopiù quello moderno, non ama le soluzioni “dal basso”. Credo che il Novecento sia stato il secolo che più ne ha dato conferma in modo drammatico. Il potere non ama chi mette in discussione, magari sulla base di un impulso a governarsi da sé, le sue verità, che vede come prerogative di un’autorità sostenuta da pratiche di controllo dei “sudditi”. In una Firenze cinquecentesca segnata dalla crisi economica e da quella religiosa indotta dal luteranesimo, l’Inquisizione fu anche una macchina moderna per il “controllo” del popolo (a Firenze, due secoli prima, l’eresia catara venne contrastata con forme inquisitoriali anche con l’uso della tortura). Leggendo Rinascimento sotterraneo di Lucio Biasiori, storico dell’età moderna che insegna all’università di Padova, se ne può avere conferma. È un agile compendio di casi poco o niente studiati nello scenario della Firenze cinquecentesca (Officina libraria, pagine 206, euro 19) che riguardano appunto “inquisizione e popolo”. In realtà, il punto di osservazione coglie l’agire dei tribunali religiosi e civili per il controllo della società fino alla repressione del libero pensiero.

Biasiori nell’epilogo ribadisce il centro della sua ricerca: il patto fra «le magistrature religiose e quelle secolari [per] il controllo delle opinioni dei fedeli e dei sudditi»; azione congiunta interrotta soltanto con il potere dei Lorena dal 1782, che «avrebbe imposto per decreto l’abolizione del Sant’Uffizio nello Stato toscano». Si tratta, come già detto, di «una manciata di casi» che, precisa lo storico, «si trasformerebbero in qualche centinaio a voler sfruttare fino in fondo i documenti dell’Archivio arcivescovile » e degli altri archivi fiorentini, ma questo non darebbe la giustificazione a fare di ogni erba un fascio perché immaginare una « Firenze cinquecentesca come una città di eretiche ed eretici sarebbe una caricatura altrettanto grottesca della società » (sarebbe come generalizzare quanto è accaduto negli ultimi anni nel mondo, e in particolare in Europa, con la pandemia e con la guerra in corso, sostenendo che abbiamo vissuto sotto un potere “totalitario”, che tuttavia le democrazie hanno reso, agli occhi di molti, friendly, amichevole o lieve). Biasiori precisa in apertura di libro che si tratta di materia insidiosa per lo storico, perché per quanto riguarda l’Inquisizione «fonti e realtà sono parenti e serpenti».

Impiccagione e rogo di Savonarola e due confratelli in Piazza della Signoria

Impiccagione e rogo di Savonarola e due confratelli in Piazza della Signoria - .

Il Tribunale del Sant’Uffizio non perseguiva crimini effettivi, ma si muoveva sulla scorta della notitia criminis, cioè applicava la regola del sospetto a chi aveva fama di eretico. Per questa ragione, le carte del Sant’Uffizio non sono le più attendibili per ricostruire la vita di chi finiva sotto processo: gli atti degli interrogatori non riproducevano «solamente tutte le risposte del reo, ma anco tutti i ragionamenti che farà e tutte le parole che egli proferirà ne’ tormenti, anzi tutti i sospiri, tutti i lamenti e le lagrime che manderà», come riassumeva il Sacro arsenale overo Prattica dell’officio della Santa Inquisitione (Genova 1621), cioè il manuale per gli interrogatori compilato dall’intri quisitore domenicano Eliseo Masini. Sarebbe come prestar fede certa a quanto “confessato” dai prigionieri sotto waterboarding, la tortura con la faccia coperta da un telo mentre, in corrispondenza della bocca, viene versata acqua fermandosi soltanto un momento prima dell’annegamento (prassi condannata dai tribunali internazionali ma usata spesso anche da paesi civili e democratici come l’America).

Il saggio tratta casi nei quali ebbe un ruolo decisivo l’inquisitore Dionigi Sammattei detto Costacciari, a capo del tribunale fiorentino dal 1578, talvolta considerato un giudice “buono” mentre era solo zelante nell’applicazione delle regole, tanto che «se la ricaduta nell’eresia fa di un imputato un relapso, non esitava a mandarlo al rogo» (ma fece assolvere Costanza da Libbiano, una vecchia ossessionata, che sotto tortura confessò di aver ucciso decine di bambini). Dopotutto, Costacciari assomiglia a tanti funzionari di oggi e finisce per essere «più burocrate che persecutore ». Oltre a quello di Costanza, al- casi esaminati da Biasiori sono quelli di Vitale da Cascia, un ebreo che assieme ad alcuni cristiani cercava tesori nelle viscere dalla città, e venne accusato di praticare incantesimi: dopo la condanna del tribunale si convertì al cristianesimo e incominciò una nuova vita. Costacciari agisce in un ventennio aperto e chiuso da due papi che furono prima inquisitori: Pio V e Sisto V. La lutherana pestis impone di stroncare sul nascere comunità o singole esperienze di eresia protestante.

E se anche l’Inquisizione incuteva paura, nota l’autore, tuttavia «un processo può anche innescare una coazione a raccontare », portando alla ribalta pubblica gente comune, così come molti aspirano ai “quindici minuti di notorietà” sottolinea Biasiori. Il caso del notaio Antonio del Giallo di Arezzo è uno dei più rilevanti tra quelli studiati nel libro. In sostanza, fece affiggere un cartello dove, sulla scorta di due libri celebri all’epoca, I viaggi di Sir. John Mandeville, un centone tardomedioevale di testi geografici ed enciclopedici, e il Fiore novello, un compendio dei vangeli apocrifi, metteva in discussione la verginità di Maria e l’unicità del cattolicesimo relativizzando la fede in cui era nato. I libri sono gli stessi che tornano nel celebre caso di Menocchio, il mugnaio friulano, studiato mezzo secolo fa da Carlo Ginzburg nel saggio Il formaggio e i vermi. Costacciari si rese presto conto che fu soprattutto una bravata da toscanacci, «noi lo habbiamo fatto per baia». Il notaio venne torturato finché non rischiò di morire. Nota lo storico, che la sua vicenda anticipa al 1524 la data in cui per convenzione si fissava l’inizio della lotta contro le tesi luterane, il 1542, con la restaurazione dell’Inquisizione romana.

Si comprende meglio come «i tribunali ecclesiastici e civili di Firenze si ponessero il problema di giudicare episodi di devianza religiosa ben prima delle indagini del Sant’Uffizio». Un altro episodio importante è quello del notaio Francesco Puccerelli perseguito perché volontariamente violò il precetto di confessarsi e comunicarsi almeno una volta all’anno stabilito nel 1215 dal Concilio Lateranense IV. Puccerelli predicava che l’ostia consacrata è soltanto pane e praticava «una fede a modo suo». Senza Lutero certe idee del notaio non sarebbero pensabili, afferma Biasiori, che poi si domanda se la conseguenza maggiore del luteranesimo non sia stata «causa della nascita di uno strumento di controllo e repressivo come l’Inquisizione». E qui si rifanno vivi gli studi e le tesi di Foucault sul controllo sociale nella modernità. Il caso Puccerelli fa emergere, tra le altre cose, una certa sfiducia nei sacramenti anche tra quelli che erano gli accusatori del notaio, come l’agostiniano Andrea Ghetti. Inoltre, rivelò al duca Cosimo I un dissenso religioso che serpeggiava nella sua corte, compromettendo la sua ambizione ad avere dal papa il titolo di granduca (che spinse Cosimo I a tradire Pietro Carnasecchi finito poi al rogo nel 1567).

Altri casi degni di nota, riguardano Prospero l’Africano, “figlio di moro”, cioè originario del Maghreb, schiavo, poi libero, che a Ginevra si fece fama di “perfetto calvinista”, e finì sul rogo dopo la “rieducazione” che gli fece accogliere con fede la punizione come un dono di Dio e un viatico alla salvezza). Ancora il caso di Caterina la Pazzuccia che, spiega lo storico, ricordava la vicenda di Lisabetta da Messina narrata da Boccaccio nella quinta novella del Decameron. A legare le due storie è il vaso dove era sepolta la testa dell’amato e nella cui terra cresce il basilico, pianta che si diceva avesse poteri d’incantesimo e curativi. Caterina sotto tortura confessò, e tanto bastò agli inquisitori. Biasori, invece, si domanda: la realtà è figlia della letteratura? Che cosa si cela dietro queste analogie? E da qui sviluppa una serie di congetture che legano Boccaccio e il caso della Pazzuccia alla convinzione più antica delle «proprietà magiche, ora benefiche ora malefiche, della pianta che cresce sulla tomba». In definitiva, sostiene lo storico, letteratura e popolo sfidano il monopolio della religione sul soprannaturale.

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