mercoledì 28 dicembre 2016
Un saggio analizza il racconto della strage decisa da Erode lungo una linea che daui Vangeli apocrifi porta fino all'apprendistato del poeta di Recanati
La Strage degli Innocenti nell'affresco di Giotto per la Cappella degli Scrovegni a Padova

La Strage degli Innocenti nell'affresco di Giotto per la Cappella degli Scrovegni a Padova

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Nell’affresco di Giotto per la Cappella degli Scrovegni a Padova le madri appaiono annientate dal dolore. Solo una, sul lato destro della scena, cerca debolmente di sottrarre il bambino al soldato che già lo ha afferrato per la caviglia. Negli stessi anni, all’alba del Trecento, anche Giovanni Pisano raffigura la Strage degli Innocenti nel bassorilievo per il pulpito di Sant’Andrea, a Pistoia, ma qui l’andamento complessivo è più concitato, quasi simile a una zuffa. E poi Ghirlandaio, Tintoretto, Guido Reni, Brueghel il Vecchio. È fra Rinascimento e Barocco, ricordano gli studiosi, che il tema assume una crescente autonomia iconografica, fino a includere soluzioni di inquietante efficacia, come nella versione dipinta nel 1527 dal veronese Giovanni Francesco Caroto (ora conservata presso l’Accademia Carrara di Bergamo), nella quale uno degli sgherri di Erode porta in alto la sciabola per colpire con più forza e intanto sferra un calcio alla donna che potrebbe ostacolarlo.

Sono un mistero nel mistero del Natale, i Santi Innocenti Martiri di cui ricorre oggi la memoria liturgica. Una domanda senza risposta, questa del dolore inflitto ai bambini, che ha ossessionato artisti e scrittori lungo una genealogia che dal racconto di Matteo si spinge fino al Moby Dick di Herman Melville, la cui conclusione coincide con la ripresa dello stesso versetto del profeta Geremia posto a suggello dell’episodio evangelico ( Mt 2, 16-18): sconvolta per la morte dei figli, Rachele non vuol essere consolata. E «Un grido è stato udito in Rama » è il titolo opportunamente scelto da Gabriele Antonini per il suo contributo al quarto volume di La Bibbia nella letteratura italiana (Morcelliana, pagine 414, euro 30,00), preziosa opera collettiva coordinata da Pietro Gibellini. Come i precedenti, anche in questo tomo – dedicato all’influenza esercitata dal Nuovo Testamento – abbondano gli approfondimenti di interesse: il Natale dei poeti ripercorso da Giovanni Tesio, la presenza di Pilato indagata da Sabino Caronia, le occorrenze paoline censite da Francesco Diego Tosto, le curiosità etimologiche raccolte da Ottavio Lurati.

Ad attirare l’attenzione sull’intervento di Antonini contribuiscono almeno un paio di elementi. Il primo, di ordine più generale, riguarda il rimaneggiamento che lo scarno resoconto evangelico ha subìto attraverso una tradizione che dagli Apocrifi (in particolare lo Pseudo- Matteo, di epoca medievale) arriva alla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, che all’altezza del XIII secolo rende disponibili le componenti successivamente riutilizzate dagli altri autori. Dalla Legenda Aurea deriva non soltanto l’immagine di un Erode disfatto dalla malattia e divorato dai vermi già prima di morire (un cadavere in vita che annuncia, per contrasto, il corpo incorrotto del Risorto), ma anche l’invenzione del figlio minore del re, destinato a rimanere vittima dalla furia che il padre stesso ha scatenato. E non è privo di suggestione il dettaglio delle navi dei Magi, bruciate su mandato del solito Erode in modo da sbarrare ogni via di fuga ai sapienti.

Non stupisce che la materia sia ripresa in forma drammatica nelle laudi duecentesche e nelle sacre rappresentazioni del Quattrocento fiorentino. Meno prevedibile – ed è questo il secondo motivo di interesse – che a occuparsi della Strage degli Innocenti siano stati alcuni grandi irregolari della nostra letteratura. Si comincia con il mantovano Teofilo Folengo, ovvero il beffardo e dottissimo Merlin Cocai che con il suo Baldus, composto in impeccabili esametri macaronici, anticipò e ispirò il gigantismo di Rabelais. Monaco benedettino, Fo- lengo fu anche autore di opere devote, tra le quali spicca La umanità del figliuol di Dio (1533) che dedica alcune ottave alla lotta tra le madri e i soldati deputati al massacro. A breve distanza, nel 1535, ecco che perfino Pietro Aretino, noto per la sua produzione licenziosa, trova il tempo di dare alle stampe una Umanità di Cristo, nella quale la carneficina ordinata da Erode viene descritta con macabro compiacimento e senza risparmio di ricatti emotivi.

Di qualcosa potrà essersi ricordato Manzoni (per esempio della «giovane piena di bellissima grazia», la cui sventura è in qualche modo simile a quella della madre di Cecilia), ma di sicuro la redazione dell’Aretino è stata tenuta presente da Giovanni Battista Marino per La strage de gl’Innocenti apparsa postuma nel 1632. Questa volta la tragedia che si consuma a ridosso della fuga in Egitto è l’evento centrale della persecuzione contro gli ebrei decisa direttamente all’Inferno nel corso di un orrendo conciliabolo. La ricerca del “maraviglioso” spinge il cavalier Marino a calcare sul pedale del romanzesco, con una serie di trovate delle quali farà giustizia il giovane Leopardi in un poemetto risalente al 1809-10, I Rè Magi (proprio così, con l’accento sulla e). Appena dodicenne, Giacomo ha già le idee molto chiare per quanto riguarda gli equilibri compositivi e non esita a emendare l’esuberanza del poemetto secentesco in modo da ottenere una più stretta aderenza alle fonti. Giacomo ha appena iniziato a cercare se stesso, ammette Antonini, eppure sa già in quale direzione andare: Virgilio, d’accordo, ma anche la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, il poeta sventurato e fraterno che più tardi ritornerà da protagonista nelle Operette morali.

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