mercoledì 5 febbraio 2014
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In un’aula di tribunale o nello studio di un avvocato il caro estinto è sempre (o quasi) il de cuius e la giurisprudenza del­la Cassazione ondivaga o tetragona, a se­conda che le sentenze siano non unifor­mi oppure talmente solide da non am­mettere  vie d’uscita. Ancora. In un atto depositato in cancelleria si può far riferimen­to senza problemi al mero tuziorismo difensi­vo, espressione sottratta alla teologia che ri­manda alla scelta di indicare una questione senza che sia necessaria, oppure a una consi­derazione ad colorandum, ossia non decisiva nel giudizio. Ed è facile imbattersi anche nel sullodato scrittore (che è stato citato in prece­denza) o in una norma non perspicua , vale a dire non ben comprensibile. Come se non ba­stasse le eccezioni sollevate dai legali avversa­ri sono inevitabilmente meri espedienti , infan­gatorie, inconferenti (irrilevanti), ultronee (su­perflue). E ogni affermazione della contropar­te diventa di per sé fantasiosa, inverosimile o le deduzioni presunte, asserite , pretese. La lingua che parlano magistrati e avvocati è ancora quella di Azzeccagarbugli: sgraziata, ri­dondante e oscura. Un’antilingua, secondo la celebre definizione di Italo Calvino, in cui ab­bondano stereotipi lessicali, latinetti, ripeti­zioni, periodi infiniti, mancanza di un illumi­nato ordine dei concetti, punteggiatura ap­prossimativa. Il che può portare a una legge che sia meno uguale per tutti anche per ragioni lin­guistiche. E può trasformarsi in un espediente per difendere l’identità di casta, magari trince­randosi dietro un vocabolario tecnico anche quando si tratta soltanto di conformismo.  «Il linguaggio giuridico è sicuramente specia­listico – spiega Federigo Bambi, storico del di­ritto all’università di Firenze e redattore della rivista dell’Accademia della Crusca 'Studi di lessicografia italiani' –. Se devo parlare di an­ticresi o di usucapione, non posso che utilizzare questi vocaboli. Comunque un modo di espri­mersi più trasparente è possibile». Aggiunge l’avvocato Alarico Mariani Marini, vi­cepresidente della Scuola superiore dell’avvo­catura e direttore della rivista 'Cultura e dirit­ti': «Accanto a un codice condiviso fra il giudi­ce e le parti, c’è quel giacimento enorme che è la lingua italiana comune da cui possiamo at­tingere anche quando siamo alle prese con u­na citazione civile o un procedimento penale». Bambi e Mariani Marini hanno curato il libro Lingua e diritto  (Pisa University Press, 198 pa­gine, 14 euro) che, in collaborazione con la Cru­sca e la Scuola superiore dell’avvocatura, vuo­le aiutare chi si muove fra i palazzi di giustizia a liberarsi da appesantimenti lessicali e sintat­tici vecchi di secoli. Il testo è figlio di incontri e seminari voluti dal Consiglio nazionale forense per promuovere la trasparenza dell’italiano nei tribunali. Una sfi­da che vuole smontare, ad esempio, le memo­rie difensive traboccanti di e valga il vero o cen­nato. Fossili linguistici, li ha chiamati la stu­diosa Bice Mortara Garavelli. «La pratica lega­le – afferma Mariani Marini – si fa ancora sugli atti del 'dominus', ossia dell’avvocato presso cui un laureato si forma, che a sua volta ha e­reditato un uso standardizzato del linguaggio. Se non c’è l’interesse al rinnovamento comu­nicativo, si rischia di scivolare in una lingua ger­gale e anacronistica che non giova al funzio­namento della macchina della giustizia». Bambi cita un caso concreto, proprio di Bice Mortara Garavelli: «Nessun giurista si stupisce nel sentire o nel leggere che 'il difensore chie­de applicarsi all’imputato la diminuzione del­la pena'. Se si sposta questo modo di costrui­re la frase in un contesto ordinario, si dovreb­be sentire dire: 'La ragazza chiede applicarsi una toppa ai propri jeans'. Chi parlasse così sarebbe preso per matto. I giudici e gli avvoca­ti non sono né fuori di testa, né fuori del mon­do. Perciò farebbero bene a modificare certe prassi linguistiche».  Ai professionisti del diritto piacciono i brocar­di latini. «Di alcuni non si può fare a meno – sot­tolinea lo studioso fiorentino –. La massima Nullum crimen, nulla poena sine lege ci dice in maniera sintetica che non ci può essere reato se non in forza della legge. Certo, altri sono as­solutamente eliminabili. E, se buona parte de­gli atti passasse al vaglio di una rigorosa ope­razione di igiene linguistica, non perderebbe­ro la loro efficacia comunicativa». La scarsa dimestichezza con l’italiano salta a­gli occhi nei concorsi di magistratura o nelle sessione dell’esame di Stato per avvocati. Hab­biamo invece di «abbiamo», correzzione con due zeta, violenza delle norme anziché «viola­zione » sono alcuni degli strafalcioni messi ne­ro su bianco. «Per anni ho fatto parte delle Commissioni – confida Mariani Marini –. Og­gi si scrive molto di più, ma la qualità si è ab­bassata ». Altro vezzo che unisce in un tacito patto magi­stratura e ceto forense è la tendenza alla pro­lissità. «Chiamiamolo pure un vizio consolida­to – ammette il legale –. Quando non si ha una buona competenza linguistica, che purtroppo non si apprende nelle facoltà giuridiche, si sci­vola nella tortuosità. Inoltre c’è la preoccupa­zione che un giudice non prenda in considera­zione una tesi debole; allora si ricorre a un uso sovrabbondante delle argomentazioni». Ecco il punto: l’italiano indecifrabile è una scappa­toia per mascherare le difficoltà di un legale (o di un pubblico ministero). «Siccome un’arrin­ga o un atto deve persuadere e convincere – precisa Bambi – più sarà cristallino, più sarà in­cisivo. E già nel 1911 sosteneva il noto civilista Vittorio Scialoja: 'Poiché non vi è pensiero giu­ridico se non in quanto sia chiaro, tutto ciò che è oscuro può appartenere forse ad altre scien­ze, ma non al diritto'». Oggi le disposizioni europee o il Codice del pro­cesso amministrativo raccomandano ai giudi­ci e alle parti «chiarezza e concisione». Qual­cuno ritiene che una svolta linguistica ridur­rebbe anche la durata delle cause. «Probabil­mente è un’ipotesi azzardata – conclude Ma­riani Marini –. Però una lingua giuridica mi­gliore semplificherebbe lo svolgimento del pro­cesso aiutando il giudice nella decisione. E con­sentirebbe al cittadino di non sentirsi ai mar­gini del sistema giudiziario». 
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