martedì 27 luglio 2010
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È folgorante il modo in cui Veron, una ragazzina sopravvissuta al genocidio armeno, racconta l’infrangersi della propria unità. Sono le prime righe del racconto della sua vita e del dolore che hanno dovuto vedere i suoi occhi: «Fin da quando riconoscevo il cielo e le nuvole, abitammo nella nostra casa intonacata di bianco nel quartiere armeno di Azizya, in Turchia, ma quando la grande volta celeste s’infranse e crollò sulle nostre vite, e noi fummo abbandonati dal sole e dispersi nel deserto arabico come semi nel vento, nessuno tornò indietro, tranne me». C’è un sentire biblico, in queste parole che già riassume il senso della tragedia, la perdita di tutto, la negazione della propria origine. È Antonia Arslan, che al genocidio armeno ha dedicato i suoi primi due romanzi, a curare la traduzione italiana di Lontano da casa (Guerini, pagine 190, euro 16,00) di David Kherdian, poeta e scrittore americano, il figlio che, «con una limpidezza di racconto asciutta e partecipe, piena di trattenuta emozione e di una pietà verso i vinti che riesce a estendersi anche ai vincitori», come scrive la Arslan, fa rivivere la storia della propria madre. Veron, da bambina diventa adolescente e poi donna nel tempo buio del genocidio armeno, formando il suo carattere nella fatica di dover cercare una strada che non sembra avere sbocchi, quella stessa di cui parla il titolo originale, difficile da rendere in italiano, e che letteralmente viene definita come «la strada che allontana da casa». In questa storia emerge il ritratto della grande famiglia, e su tutti, quello della nonna che ha una particolare predilezione per Veron che è la figlia maggiore del suo primogenito e porta il nome di una sua bambina morta da piccola. E lascia alla nipote, attraverso le sue parole, un patrimonio di quotidiane lezioni morali. Ad esempio le dice: «Tu vedi solo le cose piacevoli. Tutto questo ha un significato e un giorno lo scoprirai. Per il momento è uno dei segreti della vita, uno dei segreti di Dio». C’è poi la figura del padre Beyat, uomo di grande sensibilità, apparentemente considerato fragile nell’affrontare le difficili prove che aspettano lui e la sua gente, che invece sa comportarsi con grande rigore nel dare forza al piccolo gruppo che è rimasto della carovana di deportazione che si avvia da Azizya. Anche lui non tornerà, morirà di fatica, lasciando però alla figlia preziosi consigli. Ciò che sostiene Veron, in questi anni cruciali, fino al matrimonio in Grecia nel 1924 che le permette di ottenere il passaporto tanto sognato per l’America, è secondo la Arslan, «una fede semplice e intensa, il sogno dell’Altrove che i sopravvissuti alle grandi catastrofi ben conoscono, memore delle ultime parole di sue papà», legate alla speranza «di trovare un modo per rifondare il nostro popolo in un’altra terra, e sono convinto che debba essere lontano da qui, lontano dalle nostre pene e sofferenze». C’è un altro importate libro che racconta una storia parallela a quella di Veron, che ha per protagonista uno dei nomi più importanti dell’arte americana nel Novecento, insieme a Pollock e De Kooning. È la vita di Arshile Gorky, intitolata Una storia armena, ampia e documentatissima biografia, tradotta da Barbès (pagine 442, euro 16,00), scritta dall’inglese Matthew Spender, figlio d’arte (il padre è il poeta Stephen Spender), sposato con Maro, la figlia di Gorky, con la possibilità quindi di avere accesso alle memorie familiari e di rileggere, nella sua integralità, le testimonianze che il pittore ha lasciato, per capire anche il senso del silenzio sul "genocidio" che anche il piccolo Gorky ha attraversato. È un altro aspetto importante di chi, costretto ad un destino di esilio, si fa carico per ritrovare la soglia di una speranza. Lo sostiene anche lo scrittore armeno Kostan Zarian quando scrive: «Non ricordare ci fa sentire forti. Ciò non vuol dire dimenticare, ma non ricordare. Non ho dubbi che gli armeni si debbano liberare dai loro cimiteri, dal sangue, che ancora si appiccica alla loro carne, dai loro stracci e dal degrado». È l’atteggiamento di chi, subito dopo la tragedia, sente di dover dimostrare la forza della propria dignità, per convincersi che «noi armeni non siamo una nazione di orfani e mendicanti, ma di costruttori e combattenti». Spender sostiene che il silenzio di Gorky può riflettere questi sentimenti quando lascia l’Armenia, senza farvi più ritorno: «Era andato perduto così tanto che non era possibile venire a patti con la perdita. L’atto di non ricordare, che non voleva dire dimenticare ma rimandare il pensiero, era l’unico atteggiamento possibile. Ed è forse questa la ragione per cui Gorky reagiva in modo così aggressivo se per caso qualcuno metteva in dubbio le roboanti storie con le quali camuffava il passato». Del resto questa "storia armena" secondo l’autore vuole chiarire uno dei "miti" cresciuti intorno alla figura dell’artista. Infatti scrive che «mentre è lecito definire Gorky un simbolo del genocidio, non si può e non si deve farlo diventare un portavoce di questa causa. La differenza è sottile ma categorica». Infatti interpretare i suoi quadri come «evidenza del genocidio, sarebbe un tradimento sia della sua opera che della sua identità privata». Nella parte dedicata agli primi anni di vita di Gorky trascorsi in Armenia, Spender non si affida solo ai ricordi, ma ricostruisce anche la cultura armena di allora, soprattutto nel raccontare la storia della madre: «Nelle case armene era la madre che trasmetteva il lato mistico delle cose, mentre il padre insegnava le pratiche del lavoro dei campi. In entrambi i casi la trasmissione del sapere era fisica. La cultura si poteva toccare». Drammatica e potente è anche la descrizione del clima sociale negli anni del genocidio, con le carovane degli esuli, le epidemie, le violenze, le vite disperate e i lutti. Gorky riesce a imbarcasi sulla nave che lo porterà in America e Spender ce lo ritrae come «un intenso giovane nella tarda adolescenza con troppe esperienze violente da dimenticare che guarda le onde per ore, cantando».
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