mercoledì 30 marzo 2016
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È velyne Bloch-Dano è una giornalista e scrittrice francese, membro di qualificate giurie letterarie, autrice, fra l’altro, di La signora Proust (tradotta da Il Melangolo nel 2006), biografia della madre di Marcel Proust, nei suoi complicati rapporti col suo celebre figlio. Adesso, nella traduzione di Sara Prencipe (che elenca il coraggio, anziché la fortezza, tra le virtù cardinali), si può leggere Giardini di carta. Da Rousseau a Modiano (Add Editore, Torino 2016, pagine 224, euro 16), un libro sofisticato come la sua copertina verde, né classica né moderna, ingegnosa. L’idea è di esplorare i giardini immortalati dagli scrittori, ma l’autrice parla degli scrittori da lei preferiti (e questo lo si può capire) secondo il suo modo di concepire il giardino, e questo interessa meno. Comunque, un tocco di eccentricità è sempre benvenuto, anche se qui c’è sentore di calzeblù ( blue stocking, bas bleus). A parte la storia (ma è giusto ricordare che i meravigliosi tappeti persiani sono riproduzioni indoor dei giardini sassanidi), il giardino moderno incomincia con Jean-Jacques Rousseau, le cui Lettere sulla botanica (1782) sono un testo fondativo. Ma di Rousseau non mi piace parlare, basti la doverosa citazione. Preferisco (non per quello che sto per raccontare, ma per il talento) George Sand, capace di abbandonare all’Hotel Danieli l’amante Alfred de Musset, fiaccato dagli stravizi, per fuggire con il medico veneziano. Il suo giardino di Nohant, accudito da lei stessa dopo averlo salvato dai dissennati interventi di Madame de Béranger, è diventato luogo del cuore per molti letterati francesi dell’Ottocento e per molti lettori di oggi. Grandioso che le ultime parole di George Sand, «mormorate in un soffio prima di morire, siano state: “Lasciate... erba”». E Bloch- Dano conclude: «Spero che là dove si trova, la giardiniera di Nohant possa ancora usare la vanga e il rastrello e raccogliere qualche pianta per l’erbario degli angeli». La ricognizione di Évelyne Bloch-Dano attraversa Balzac, Stendhal, Flaubert, Hugo, Zola, Proust, Gide, Colette, Sartre (da ragazzo, «escluso dal Jardin du Luxembourg») e Simone de Beauvoir, per sfociare nei romanzi di Patrick Modiano (Nobel 2014), il cui giardino «si situa a metà strada tra il paesaggio reale e il ricordo costeggiato, attraversato, rievocato, porta con sé ventate di profumi o di sogni, corregge le geometrie delle vie e degli edifici». Ma che cos’è un giardino? «A metà strada tra natura e cultura, al contempo straniante e protetto, è un concentrato di bellezza e sensualità, che si tratti di un parco normanno verdeggiante sotto la pioggia, di un roseto, di un palmeto, di una terrazza italiana o di un orto protetto da una porta stretta». Una definizione più complessa? C’è Michel Foucault, per il quale il giardino è «eterotopia», cioè un luogo fuori da ogni luogo, «in cui tutti gli altri spazi reali che possiamo trovare all’interno della cultura sono, al contempo, rappresentati, contestati e rovesciati». E ci sono, fortunatamente, gli scrittori come Marguerite Duras, a cui è dedicato il capitolo forse più intenso del libro, che sanno trasformare un giardino in letteratura. «Ultimamente», afferma Duras, «ho scritto una pagina, parlavo dell’umidità del parco, il parco grondante di umidità, eccetera. Ho riletto il testo e ho visto che avevo usato il plurale. Avevo scritto: le umidità del parco. Invece avevo pensato l’umidità del parco. Eppure era talmente esatto parlare delle umidità, nella molteplicità del parco, nelle specie del parco, c’era l’umidità della terra, l’umidità degli alberi, dei frutti, dell’acqua, dell’aria e così via, era un plurale». Un libro è pur sempre un giardino accessibile, in cui è bellissimo passeggiare. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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