mercoledì 7 dicembre 2022
«Chi metterebbe il figlio in mano a un trafficante se avesse altre possibilità? Ma spesso questo è il solo modo di salvarlo». Parla lo scrittore Javier Zamora, che emigrò da ragazzo negli Usa
Lo scrittore Javier Zamora

Lo scrittore Javier Zamora - WikiCommons

COMMENTA E CONDIVIDI

«Vivi in un luogo ma non ne fai parte. Per quanto bene impari la lingua, per quanto studi, per quanto ti impegni, per quanto sembri come gli altri, non lo sei. E di tanto in tanto, la mancanza di quel pezzo di carta, te lo ricorda. Sei escluso da molte agevolazioni, molte aziende non ti assumono. Ma il peggio è che ogni cosa, nella tua esistenza, è precario. Soprattutto gli affetti. Per anni, sono tornato a casa con il terrore di non trovare più mia madre e mio padre perché erano stati “deportati”. Ogni giorno, devi imparare a fare i conti con la paura, la rabbia, lo straniamento. Questo significa essere un “indocumentado” ». A nove anni, Javier Zamora è arrivato negli Usa da El Salvador per riunirsi ai genitori. Questi ultimi erano fuggiti anni prima dalla violenza che dilania il piccolo Paese centroamericano. Quando ha racimolato abbastanza denaro, la coppia ha pagato un coyote, trafficante di esseri umani, affinché conducesse il piccolo per gli oltre cinquemila chilometri che separano il “Pollicino d’America” dalla californiana San Rafael. Javier è uno dei tantissimi baby-migranti che hanno attraversato il Guatemala, il Messico e il deserto lungo cui scorre la frontiera statunitense senza la compagnia di un familiare. Per nove settimane ha viaggiato in bus, a piedi, in auto, si è perso e ritrovato, ha schivato i narcos e la migra, l’onnipresente polizia migratoria, è stato abbandonato dal coyote e “adottato” da tre sconosciuti compagni di cammino. Un tempo di dolore, angoscia, solitudine ma anche scoperta, solidarietà, bizzarra quotidianità che, oltre due decenni dopo, Zamora ha trasformato in Se piovessero stelle su questo deserto (Utet, pagine 448, euro 20,00). Al confine tra autobiografia e romanzo, il libro racconta l’odissea migratoria con l’occhio disarmante e rivelatore di un bambino. «Un bambino sopravvissuto – sottolinea l’autore –. Questo siamo noi migranti irregolari. Superstiti alla ferocia della terra di provenienza, alla lacerazione della perdita degli affetti familiari, alla crudeltà del tragitto». Eppure gli occhi di Javier sono capaci di catturare anche i gesti di umanità in cui il piccolo e il suo gruppo si imbattono, la bellezza del paesaggio, la maestosa desolazione del deserto. Nel suo racconto traspare lo Zamora poeta, autore della raccolta Uncompannied che, nel 2017, l’ha fatto conoscere e apprezzare alla critica statunitense.

Perché ha deciso di dedicarsi alla prosa ora?

Per vent’anni, ho cercato con tutte le mie forze di rimuovere il ricordo dell’esperienza che mi aveva portato negli Usa. Ovviamente non ci sono riuscito. Lo tenevo, però, sepolto dentro di me. La psicoterapia mi ha aiutato a comprendere quanto fosse importante farci i conti. Ho cercato di riconciliarmi con quel trauma attraverso la poesia. Con i versi, però, riuscivo a catturare solo la punta dell’iceberg di quello che avevo sentito. La prosa mi ha consentito di andare fino in fondo, di ripercorrere tutto, senza nascondermi. Il Covid, con l’immobilità forzata, mi ha dato l’opportunità di smettere di scappare da me stesso. Quando ho deciso, mi sono reso conto che ricordavo ogni istante del viaggio. Potevo e posso sentire gli odori, i sapori, i rumori. È stato duro ma importante. Il libro mi ha riconciliato con il mio passato e mi ha consentito di vivere in modo nuovo il presente.

Lo chiamerebbe un “libro di guarigione”?

Lo è al livello personale ma anche collettivo. La “guarigione”, o meglio la ricerca di una guarigione, dalla serie di stereotipi che accompagnano la narrazione mediatica delle migrazioni. Noi testimoni dobbiamo riappropriarci di questo racconto, farlo nostro, non limitarci a farci narrare da altri. Dobbiamo diventare protagonisti. So che non è facile mettersi in gioco ma è importante. Specie ora.

Perché ora?

Il trumpismo ha sdoganato una serie di pregiudizi razzisti. Non li ha creati, ovviamente. Li ha resi, tuttavia, socialmente accettabili, non solo negli Stati Uniti. Nel mondo, inclusa l’Europa, la retorica trumpiana ha fatto scuola. Chi migra viene criminalizzato. Illegale, lo chiamano. Pochi si interrogano sul perché lo è: non ci sono, il più delle volte, possibilità legali di partire dalle nazioni più povere del pianeta. Per questo, la voce dei migranti ha la forza di sovrastare questo rumore di fondo. Dobbiamo raccontare che cosa è davvero la migrazione.

Che cosa è?

Una fuga per la vita, propria e dei propri familiari. Non si parte per inseguire il sogno americano, come spesso si dice. Si fugge da Paesi in cui non un uomo o una donna non hanno possibilità di sopravvivere o di far sopravvivere i propri cari. Pensiamo alla crudeltà delle famiglie divise. A chi resta e deve rassegnarsi a barattare il proprio dolore con i risparmi e i regali che chi parte gli invia per farlo andare avanti. A chi deve mettere il figlio nelle mani di un trafficante perché è l’unico modo di portarlo in salvo e poterlo riabbracciare. Chi affronterebbe tutto questo se avesse un’altra possibilità?

Ne vale la pensa alla fine?

A lungo ho pensato di no. Poi, dopo che ho ottenuto la cittadinanza, a ventotto anni, e sono potuto tornare a El Salvador per riabbracciare mia nonna e gli zii mi sono reso conto di sì. Non avrei potuto laurearmi e vivere di scrittura se fossi rimasto. Certo, negli Usa non è stato facile. Mi rendo conto di essere un’eccezione, non la regola. Sono riuscito ad entrare all’Università di Berkeley grazie a una nuova legge statale che apriva le borse di studio anche per chi aveva un permesso temporaneo, come me all’epoca. Mi abbonavano un terzo della rata annuale invece della totalità ma è stato comunque un aiuto importante.

I migranti non inseguono il sogno americano. Qual è, però, il sogno americano di Javier Zamora?

Che ciascun essere umano costretto a lasciare la propria terra possa accedere a una qualche forma di status legale nel luogo di accoglienza. Che non debba vivere nell’ombra. Che abbia diritto ad avere diritti. La migrazione non riguarda solo i trecento milioni di migranti. È la grande sfida di questo tempo. Se non le diamo una risposta umana, falliamo come singoli e come società.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: