sabato 16 aprile 2022
L'attualità ci insegna che le immagini iconiche di un evento non hanno un valore e un significato determinato per sempre. Stiamo attenti allora a quelle innalzate come vessillo nel presente
Evgenij Chaldej, "La Bandiera della Vittoria sul Reichstag", 2 maggio 1945. Della fotografia esistono molte versioni

Evgenij Chaldej, "La Bandiera della Vittoria sul Reichstag", 2 maggio 1945. Della fotografia esistono molte versioni - WikiCommons / Mil.ru / CC-by-4.0

COMMENTA E CONDIVIDI

Che una immagine parli più di tante parole è un dato di fatto. La vista è il senso a cui la nostra evoluzione affida la maggior responsabilità sotto il profilo della sopravvivenza. Se viene a mancare, l’incredibile macchina del corpo si industria per surrogarla con gli altri sensi, per ricreare la spazialità di un ambiente privo di immagine. Si tratta comunque di un ripiego che non riesce a colmare completamente il vuoto percettivo del deficit visivo. Su questa base si fonda tutto lo strapotere di una cultura dell’immagine, oggi amplificata e distorta nelle sue dimensioni endemiche, distribuita in maniera pervasiva e invasiva, strumento controverso di un ventaglio di significati ampio e contraddittorio.

Abbinare un’immagine a un significato univoco è una impresa senza senso. Anche a prescindere dalle didascalie, il più delle volte accessorie e forzate quando entrano nel merito delle interpretazioni, l’immagine parla sempre con un fondo di ambiguità, quasi a volersi disfare del suo enorme potere diluendolo nel solvente della incertezza. Questo favorisce le strategie di comunicazione in cui immagine e didascalia recitano la parte del poliziotto buono e del poliziotto cattivo.

Con la fotografia, il medium principale nella comunicazione per immagini odierna, si mostra un contenuto che deborda dal comunicato ortodosso al contesto e con la didascalia si corregge il tiro. In questo modo comunicazione visiva e descrizione determinano un unicum che finisce per generare confusione e contraddizione, ragione di un abbinamento funzionale che cerca inutilmente di soddisfare più fronti. In ogni caso tra le due componenti è la fotografia a detenere il primato, è ciò che resta perché si connette direttamente ai nostri meccanismi ancestrali di analisi e selezione delle scelte e degli adattamenti.

Questo però non risolve nulla. All’interno della stessa immagine possono esservi, e il più delle volte convivono, aspetti talmente contrastanti che inducono a contenuti dal carattere opposto. Se incrociamo questa proprietà con la complessità percettiva dell’osservatore e la sua inevitabile attitudine a piegare in qualche modo il significato alla propria sfera cognitiva, ecco che la cosa si complica in modo irrisolvibile.

L’analisi di questi processi richiederebbe spazi decisamente maggiori a quelli di un pezzo su un giornale. Quindi sono obbligato a scegliere solo alcune tra le tante possibili provocazioni. Ogni immagine pubblicata ha una sua potenza indiscutibile. Questa potenza però non riesce quasi mai a individuare una polarizzazione certa a causa della intrinseca ambiguità che si riflette nella sala di specchi degli osservatori moltiplicando in modo esponenziale le interpretazioni. Ne consegue che attribuire a una immagine il potere salvifico della rivelazione è un fenomeno illusorio, ideologico e strumentale.

Le immagini iconiche di un evento o di un periodo sono scelte in base al gradimento che ne definisce la forza ma non ne determina una volta per tutte, e nemmeno potrebbe, il significato. Pensiamo a oggi l’immagine scattata il 2 maggio 1945 in cui la bandiera del popolo sovietico veniva issata sul Reichstag, siglando la “presa di Berlino”, oggetto di dispute tra russi e americani del tempo: il suo significato esteso avrebbe dovuto essere la vittoria del bene sul male (con buona pace di tragedie come Dresda). Oggi il suo significato è del tutto virato verso una contraddizione così evidente da lasciare senza parole. Come, senza parole, almeno al principio, è rimasta l’Europa.

Ma non basta, questa osservazione è quasi banale, in fondo. Ciò su cui mi interrogo è se questa contraddizione che oggi la storia ci serve sotto forma di una ulteriore enorme tragedia in cui è evidente chi sia l’oppressore e chi l’oppresso, fosse dentro quella foto già al tempo, ma l’occhio inevitabilmente influenzato dai disastri del nazismo ha impedito di coglierla. La domanda è: in quella immagine erano già presenti i semi di ciò che avrebbe portato attraverso Chrušcëv, Brežnev, Andropov, Cernenko, Gorbacëv e El’cin all’attuale fiammata di zarismo nel formato di un Cremlino putiniano? Sono convinto di sì, ma la domanda rimane aperta.

Questa considerazione si può fare su ogni immagine esistente, anche su quelle di minor significato. Non vi è stigma definitivo che possa risolvere la contraddizione insita nelle cose umane, dinamiche nel bene e nel male, e che mal si prestano a essere cristallizzate su un qualsivoglia supporto. Utilizzare le immagini come un randello per colpire indiscriminatamente e scientemente gli osservatori può essere un modo efficace di provocare reazioni, ma non deve mai confondersi con l’ostentazione di un vessillo dalla verità assoluta, novello in hoc signo vinces, giustificazione troppo facile di una chiara deriva ideologica. Quello stesso vessillo si può trasformare in un boomerang in tempi e modi impossibili da prevedere ma capaci di rivelare il salvatore come il nuovo oppressore, qualcosa che Zucov al tempo non avrebbe potuto immaginare. O forse sì.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: