giovedì 30 ottobre 2014
COMMENTA E CONDIVIDI
In principio era la televisione da guardare insieme, in un cinema o nel soggiorno di casa, quella di Lascia o raddoppia oppure di Canzonissima, soltanto pubblica e monopolista che trasmetteva poche ore ma che faceva delle sue trasmissioni un momento identitario. Poi c’è stata l’epoca della tv da vedere da soli, ognuno col proprio apparecchio e telecomando, quella commerciale, dei molti canali, della colonizzazione delle ventiquattro ore, della programmazione continua. Oggi che la televisione va a braccetto con la Rete siamo tornati agli esordi: non più un approccio individuale con il piccolo schermo, ma un’esperienza comunitaria dove la tv che parla con il computer, il telefonico o il tablet crea come un salotto collettivo e alimenta «l’arte della socievolezza», nota Fausto Colombo, docente di Teoria e tecniche dei media all’Università Cattolica di Milano e curatore del rapporto «La social tv nell’attuale contesto evolutivo del sistema dei media». Uno studio realizzato da Focus in media, l’osservatorio sulla comunicazione della Fondazione per la Sussidiarietà, che è stato presentato ieri a Milano nell’ateneo di Largo Gemelli.In oltre cento pagine la ricerca analizza la nuova stagione della “multi-tv” che non è soltanto sinonimo di video sul web oppure on demand ma anche di «visione condivisa a distanza», spiega Andrea Cuman, docente di Informatica per la comunicazione alla Cattolica. E ciò avviene attraverso i social network che con il secondo schermo del cellulare o del pc si affiancano al televisore. Nasce così il “telespett-attore” che prende il posto dello spettatore passivo e che interagisce su due fronti: dialoga con il programma che va in onda e conversa con il pubblico. Da qui la scelta di monitorare la platea che si muove su Internet e di «monetizzare i discorsi sulla tv» nelle reti sociali, sottolinea Colombo.La rivoluzione della social tv ha modificato tutto il comparto: le emittenti sono ormai su più piattaforme (dai computer agli smartphone); le compagnie telefoniche offrono filmati e dirette (ad esempio, c’è la webtv di Vodafone, ma anche Cubovision di Telecom oppure le partite sui cellulari Tim); i colossi dell’elettronica hanno trasformato gli schermi di casa in una televisione «aumentata», ossia in grado di offrire servizi aggiuntivi; e gli operatori del web hanno creato i propri canali (è il caso di Apple Tv o di Google Tv).Allora sorge una domanda: è davvero finita l’era del televisore? Macché. Nonostante la tv sia sempre più ibrida, il pubblico che in Italia accende il tradizionale apparecchio è cresciuto in un anno di quasi due punti percentuali. Anche perché il Paese invecchia e il televisore finisce per essere un compagno per chi è a casa. Ma, evidenzia la ricerca, esplode anche il consumo dei video sul web: più del 70% degli utenti italiani vede filmati online online e in dodici mesi il consumo di tv su Internet (compresi commenti e condivisioni) è aumentato del 12%. Un boom dell’«economia del clic» che preoccupa i network, spaventati dalla parcellizzazione dell’audience soprattutto di fronte al dilagare di YouTube. E allora vengono adottate strategie differenti. La Rai ha cambiato strada nel corso degli anni: prima, ha stretto un’alleanza col canale Internet dei video; poi l’ha di fatto cancellata. Dal 2008 allo scorso giugno la tv di Stato ha caricato 7mila filmati l’anno e ha ricavato 700mila euro ogni dodici mesi dalla condivisione delle sue immagini. Troppo poco, secondo l’azienda. Che da quattro mesi ha lasciato su YouTube solo qualche clip che rimanda al portale raireplay.rai.it, unico depositario delle trasmissioni di Viale Mazzini. Invece Mediaset ha dichiarato guerra al sito, l’ha trascinato in tribunale e ha fatto rimuovere ogni filmato. L’obiettivo: scommettere solo sul portale video.mediaset.it per fare cassa con la pubblicità. I numeri, però, mostrano che in Italia il 70% delle pagine collegate ai video passa da YouTube mentre a Mediaset e Rai restano appena il 3% e il 2%. Diverso l’approccio di La7 che con il sito mondiale dei filmati ha stipulato un’intesa per far circolare i programmi.Quando, invece, si guarda ai social network, l’orientamento è identico. Le emittenti li considerano «strumenti di influenza». «Le trasmissioni diventano oggetto di conversazioni – chiarisce Simone Carlo, ricercatore in Culture della comunicazione all’Università di Largo Gemelli – che possono modificare la percezione della qualità del programma e quindi influenzare le scelte di consumo». E le stazioni ci puntano anche come «tentativo di contrastare la forte frammentazione dei pubblici in una molteplicità» di ambienti, aggiunge Maria Francesca Murru, ricercatrice in Teoria e tecnica dei media alla Cattolica. Emerge, quindi, la necessità di sistemi che si affianchino all’Auditel e misurino la voglia degli spettatori di commentare la tv sui social network. La ricerca spiega che nella Penisola il marchio tv più social è Le Iene di Italia 1 con 800mila follower su Twitter e oltre 3,5 milioni di “mi piace” su Facebook. Seguono Mtv, Real Time e Zelig di Canale 5. Ma non è detto che l’exploit “sociale” corrisponda a «un proporzionato successo in termini di audience». Così accade che Le Iene non riescano «sempre a fare ascolti soddisfacenti» o che Mtv sia un canale con «ascolti tendenzialmente limitati», si legge nel dossier. Lo studio non comprende il nuovo “social Auditel” che la società Nielsen ha fatto sbarcare nella Penisola da un mese e che conteggia gli ascolti in Rete attraverso Twitter. Due giorni fa la Nielsen ha diffuso un altro stock di cifre: il programma più twittato della settimana è X Factor di Skyuno (124mila twitter e un’audience sulla piattaforma di 194mila persone). Poi ci sono Pechino Express di Raidue, Servizio Pubblico di La7 e Le Iene.Dietro le nuove rilevazioni c’è un fine commerciale. Secondo la ricerca, ciò che oggi interessa al mondo televisivo è trasformare in business i commenti online. Perché la spinta di conversare di televisione sul web è considerata un «nuovo valore monetario». La vera miniera d’oro è costituita dai dati che «gli utenti lasciano più o meno volontariamente e consapevolmente» parlando sulle reti sociali. Il pubblico diventa «trasparente», precisa lo studio: si conoscono nomi e cognomi, interessi, amici (virtuali). E queste tracce sono una nuova ricchezza per le tv. Certo, il dossier fa suonare anche un campanello d’allarme: siamo di fronte a una «appropriazione del controllo sul flusso televisivo» da parte delle emittenti e questo segna uno «sbilanciamento della relazione di potere» fra pubblico e stazioni «a favore di queste ultime».
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