mercoledì 3 settembre 2014
Il vignettista del Corriere della Sera racconta la "sua" Siena. "La megalomania ci ha sempre un po' fregato. Ma siamo gente di grandissima civiltà. E qui c'è la culla dell'italiano"
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Le finestre dello studio di Emilio Giannelli si affacciano su un giardino racchiuso dagli ulivi. Un soffio di vento scompiglia gli schizzi delle sue vignette che ogni giorno escono sulla prima pagina del Corriere della Sera. Siena è a quindici minuti di auto da questo casolare che fa molto “cartolina toscana” nel Comune di Sovicille. «Se dovessi descrivere la città all’Europa – spiega – disegnerei un uomo di Leonardo che con le mani si copre le parti intime. Perché a noi senesi non piace mostrare le vergogne». E quali sarebbero? «Abbiamo vissuto alle spalle del Monte dei Paschi. Oggi ci limitiamo ai mugugni ma non è stata imparata la lezione. Prevale l’idea che la città sia schiacciata da un destino beffardo che è più forte di lei».

Ride Giannelli, che sa bene quanto sia accaduto nella banca di piazza Salimbeni. Ne era un dirigente. «In compenso abbiamo il Palio che è un’arma di distrazione di massa. I soldi per pagare i fantini li troviamo sempre». La città si è già divisa sull’idea di un’edizione straordinaria della corsa nel 2019 in occasione della Capitale europea della cultura. «Di sicuro – continua Giannelli – per capire il Palio vanno comprese le contrade. Dal Quattrocento sono poli di aggregazione che hanno un rilievo sociale: ad esempio, insegnano la mutualità o alimentano il senso di appartenenza».

Poi mostra un libro di sonetti senesi scritto da suo fratello Enrico. S’intitola Gente vana. «In fondo siamo così. O meglio, siamo gente vanagloriosa. Che significa ambiziosa e che non ha i piedi per terra. Ne abbiamo fatti di passi falsi. Penso al Duomo: tutti dicono che non fu completato per la peste. Ma, se si legge la storia di Siena, si capisce che c’era una smania di grandezza. Si è costruito questo colosso senza pensare alla natura del terreno e le colonne sono ancora sbilenche. La megalomania ci ha un po’ fregato».

Vi resta, però, la battuta sempre in bocca. «L’ironia è parte del nostro carattere. Ma è frutto dell’insicurezza e della timidezza. Buttare le cose in burletta è la via facile per sottrarci a un discorso serio». Almeno qui c’è la culla dell’italiano. «Già. Sa qual è il maggiore errore fatto dal Manzoni per mettere nei Promessi Sposi una lingua perfetta? Essere andato a Firenze. Il risultato è che li ha riempiti di i che, i che tu dici, i che tu fai. Ha scritto: “L’è dura, disse il Griso”. Una buccia di banana. Perché in italiano si dice: “È dura”. E a Siena si dice: “È dura”».

Ecco che emerge lo spirito senese in cui si sente ancora l’eco della battaglia di Montaperti e della vittoria sull’eterna rivale Firenze (poi destinata a conquistare la città). «Ma mi viene l’orticaria a parlare di senesità. In ogni caso la città testimonia una grandissima civiltà. Prendiamo il periodo della ricostruzione: in Italia sono stati anni di scempi urbanistici. Invece Siena si è salvata grazie a sagge personalità che hanno permesso al centro storico di non essere aggredito. Certo, se la città si è conservata così, non solo è per le regole ma anche per i suoi cittadini che le hanno sempre rispettate».

E santa Caterina che ammoniva a non considerare la cosa pubblica una proprietà di cui disporre?. «Se rileggessimo ciò che dicevano gli antichi, il nostro sedere sentirebbe lo schiocco di una frusta. Comunque oggi per un senese medio santa Caterina è solo la “sdentata” e la patrona dell’Oca». Le frustrate le dà lei, Giannelli. «E si dovrebbero tirare anche a chi ha trasformato Siena nella meta giornaliera di un turismo frettoloso. Rischiamo di diventare la città dei pensionati e degli affittacamere. E ormai il centro è solo un mercato di chincaglierie. Invece dovevamo farne un distretto culturale con l’Università, l’Ateneo per stranieri, l’Accademia Chigiana o Santa Maria della Scala».

Ma Siena può impedire il suo declino? «Finita la stagione del “babbo Monte” la città deve prendere coscienza che ha estro, cultura e intelligenze per rinascere. Se così andasse, il riscatto sarebbe accompagnato anche da un moto di orgoglio. Perché saremmo risorti con le nostre forze e non per iniezioni dovute a meriti altrui».

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