mercoledì 16 novembre 2022
Nell'anno del centenario lo scrittore romano affronta l’analisi letteraria del suo autore preferito immergendosi quasi come Alice nelle meraviglie: fra ammirazione e incursioni nel dubbio
Lo scrittore francese Marcel Proust (1871-1922)

Lo scrittore francese Marcel Proust (1871-1922) - archivio

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La risposta è “no”. Oppure, a voler essere prudenti, “probabilmente no”. Perché di letteratura si parla e in letteratura un margine di dubbio va pur sempre conservato. Del resto, un filo di elegante scetticismo lega tra di loro i saggi che Alessandro Piperno riunisce sotto il titolo Proust senza tempo (Mondadori, pagine 156, euro 19), aggiungendo un ulteriore tassello a quel genere misto di autobiografia e critica letteraria che lo scrittore romano ha già efficacemente sperimentato in libri come Pubblici infortuni (2013) e Il manifesto del libero lettore (2017). Qui il caso si fa ancora più serio, dato che a essere chiamato in causa è l’autore con il quale Piperno intrattiene il rapporto più stretto, sia per la sua attività di francesista sia per la sua condizione di narratore. E poco importa che la predilezione per Proust sia emersa più lentamente rispetto al riferimento ai classici della letteratura ebraica statunitense, primi fra tutti Saul Bellow e Philip Roth. A quest’ultimo Piperno fu esplicitamente avvicinato all’epoca del suo romanzo d’esordio, Con le peggiori intenzioni (2005), che oggi torna a rivelare la sua sotterranea consistenza proustiana. Non è un caso, dunque, che Proust senza tempo si concluda proprio con una riflessione che accosta la Recherche alle opere di Roth, quasi a saldare un duplice debito rispetto al quale Piperno avrebbe il diritto di ritenersi ormai affrancato. Se infatti il dittico di Il fuoco amico dei ricordi (2010-2012) ha l’imponenza un po’ massimalista della grande costruzione proustiana, con i successivi Dove la storia finisce (2016) e Di chi è la colpa (2021), Piperno ha intrapreso una strada in buona parte diversa. Non è venuta meno la capacità di racchiudere la rappresentazione di un ambiente sociale in un solo giro di frase (è il tratto più proustiano del più proustiano dei nostri scrittori), ma si è attenuata l’iniziale ferocia di un’ironia rivolta di preferenza verso di sé. In compenso, hanno assunto un’importanza sempre maggiore gli espedienti del feuilleton, lungo la linea che accomuna Dickens a Balzac. Il raffronto con la Comédie humaine, in particolare, ispira a Piperno una massima di suprema consapevolezza: « La mia idea – inverata da molte famose pagine della Recherche – è che la volgarità sia un ingrediente essenziale dell’arte romanzesca». Prima di essere ammesso a questa sequenza di paragoni illuminanti (Proust accostato a Nabokov, a Virginia Woolf, a Céline, in sintomatica consonanza con il saggio di Valerio Magrelli appena uscito da Einaudi, Proust e Céline. La mente e l’odio), il lettore è invitato a sostare nella lunga introduzione che Piperno dedica al suo rapporto personale con la Recherche.

È in questo contesto che emerge, fra i tanti, l’aneddoto in cui prende corpo la domanda alla quale si è risposto in apertura: «C’è un argomento su cui Proust non abbia detto la sua?». A rivolgergliela per la prima volta, spiega lo scrittore, è stata la madre, indispettita dall’ennesima citazione adoperata per chiudere la conversazione. No, probabilmente non c’è argomento della sua epoca su cui Proust non si sia espresso, esercitando per di più un singolare diritto di prelazione nei confronti del futuro (le sue notazioni sul sistema dell’informazione o sul significato della musica popolare hanno qualcosa di seminale e sorprendente). Questa apparente onniscienza, però, è ottenuta per via di profondità della percezione più che per ampliamento delle conoscenze. Non che Proust non sia colto fino all’erudizione, e snobisticamente fiero della sua dottrina. Ma la sapienza che guida la sua scrittura è di altra natura, riguarda i misteri di un’umanità che vorrebbe identificarsi con il sublime Swann e invece si ingaglioffa nel simulacro di Madame Verdurin. Non fosse che per questo, Proust merita davvero di essere affiancato ad altri due grandi esploratori dell’interiorità come Montaigne e Dante. Con il primo condivide, oltre che la maestria nella prosa francese, il privilegio – immeritato e incancellabile – di un’infanzia felice; con il secondo, invece, una relazione più complessa, se è vero che l’itinerario della Recherche «appare contrario a quello dantesco, muovendo dal Paradiso dell’infanzia per giungere sfiancato, attraverso il Purgatorio della frivolezza, all’Inferno della vecchiaia e della morte». La parola decisiva è proprio questa, “morte”. Piperno ci si sofferma a più riprese, sempre rivendicando il suo agnosticismo e spesso ammettendo che la lettura di Proust è per lui quanto di più simile si possa immaginare a un’esperienza religiosa. La sprezzatura con la quale l’affermazione è lasciata cadere non deve trarre in inganno. Sempre a proposito del rispecchiamento di Proust in Dante e viceversa (come la Commedia era, per Mandel’štam, «una sola strofa, unica e indivisibile», così per Proust «anche la Recherche si configura come un’unica, incessante frase»), colpisce l’esatta percezione di quanto, nel poema, l’Inferno sia solamente «una tappa preliminare».

Osserva Piperno: «La fede cristiana che lo anima non si esaurisce certo nelle vendette distribuite con tanto inflessibile rigore. Di fatto, è più a suo agio nella luce che nelle tenebre». La traiettoria inversa, dal bianco al nero, è peraltro seguita dalla scrittrice Eleonora Maragnoni nel prezioso Proust. I colori del tempo (Feltrinelli, pagine 130, euro 30), che si apre con una prefazione dello stesso Piperno. Nuova edizione di un saggio innovativo apparso originariamente nel 2014, questo atlante cromatico della Recherche non è una semplice ricognizione delle fonti pittoriche alle quali il romanziere attinge più o meno esplicitamente nella sua opera. Proustiano, nell’interpretazione di Marangoni, può essere anche il blu assoluto di Yves Klein, del quale lo scrittore non poteva avere nozione, ma che è in qualche modo evocato alla fine del Tempo ritrovato: un «lembo di cielo » che protegge e consola, suscitando la speranza che ciò che è stato nel tempo non venga dissolto dalla morte.

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