venerdì 16 giugno 2023
Il celebre medievista indaga il mistero e il paradosso di un uomo capace di porre l’intera vita in Cristo attraverso il corpus in frammenti della sua opera e delle sue biografie
Manoscritto della “Legenda Maior”, XIII secolo. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana

Manoscritto della “Legenda Maior”, XIII secolo. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana - WikiCommons

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Proponiamo ampi stralci della prefazione di Paolo Vian al volume di Jacques Dalarun Corpus franciscanum. Francesco d’Assisi: corpo e scrittura, appena tradotto delle Edizioni Biblioteca Francescana (pagine 184, euro 36,00). Nel volume il medievista francese, noto scopritore della cosiddetta “Vita ritrovata” di san Francesco opera di Tommaso da Celano, evidenzia la disparata varietà dei testi francescani, senza preoccuparsi di uniformarla, convinto che ogni possibile soluzione alla “questione francescana” debba partire dal “corpo” stesso dei testi, cioè dai manoscritti che li trasmettono. Proprio alla riproduzione dei manoscritti è dedicata la parte più importante del volume, che muove dalla constatazione di come le comunità umane, nel cammino verso un’identità istituzionale, si presentino solitamente anche come comunità testuali, dotate di un corpus di scritti che rende ragione della loro esistenza. Ma è raro che la figura del fondatore vi occupi un posto simile a quello che Francesco occupa nell’insieme dei testi francescani; non solo la sua figura, ma anche il suo corpo, che prende nelle sue Vite il posto che il corpo di Cristo occupa nei suoi scritti.

Il viaggio di Jaques Dalarun nelle fonti francescane, dagli scritti di Francesco ai primi decenni del Trecento, si apre sotto il segno del paradosso. In quel secolo si costituì un impressionante corpus testuale intorno a un idiota, a un illetterato che, altra stranezza, fu più prolifico con la sua trentina di scritti del colto Domenico di Guzman, suo contemporaneo. Eppure, nelle diverse gradazioni di accesso alla lettura/scrittura, Francesco era un «semialfabeta funzionale». Accanto al padre mercante aveva imparato a far di conto, a leggere e scrivere in italiano; aveva anche qualche conoscenza del francese mentre solo col tempo, dopo la conversione, aveva incominciato a frequentare il latino, principalmente attraverso la liturgia. Gli autografi rivelano una scrittura goffa, dal latino esitante. Ma alla scrittura, sua o di altri, Francesco doveva ricorrere: sapeva che era l’unico modo per «resistere nel tempo, inserirsi nella durata», tanto più quando la malattia gli impedì i movimenti. Si rivolgeva a un Ordine, quello dei frati Minori, che a differenza di quello dei Predicatori, nel quale tutti erano dotti, erano presenti variegate categorie: alfabeti «professionali» (come Leone) e «dell’uso» (come Rufino), semialfabeti «grafici» (come Egidio) accanto ad analfabeti.

Può apparire singolare una chiave di lettura che, per attori nella dimensione dello spirito, annetta tanta importanza alla capacità di scrittura e di lettura. Ma questa è la scommessa di Dalarun. Il corpus testuale francescano è la sola via percorribile per avvicinarci al corpus storico e concreto di Francesco d’Assisi. Se la memoria passa attraverso i testi, i testi ci arrivano solo attraverso le scritture. Di qui l’attenzione ai manoscritti, alle persone che li hanno voluti e allestiti, letti e postillati, posseduti e trasferiti. Corpus franciscanum è un viaggio sorprendente e affascinante attraverso ventisette manoscritti (e un incunabolo) rappresentati in quarantadue specimina: dagli autografi di Francesco alla trascrizione dei suoi scritti, alla diffusione delle Vite e dei miracoli che lo riguardano.

Alla minuzia dei dettagli Dalarun preferisce la trama dell’ordito, ma il quadro che delinea è chiaro e convincente. Il «groviglio delle leggende» è dipanato in quattro atti. Il primo è dominato da quel «letterato di prim’ordine» che fu Tommaso da Celano, apprezzato da Gregorio IX e influenzato da frate Elia. Il terzo atto è segnato da Bonaventura, il primo biografo che non ha conosciuto Francesco, ma che genialmente riuscì a costruire «un ponte che collega la culla del progetto francescano, l’Italia centrale, e l’università di Parigi, il cuore e la testa». Il quarto atto è caratterizzato da scritti che testimoniano un recupero di memorie che, tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, incrocia le crescenti polarizzazioni nell’Ordine. Ma prima, nel secondo atto, entra in scena un fattore che, come un fiume carsico, percorre sotterraneamente tutte le vicende successive e a tratti riemerge: i ricordi di frate Leone e dei suoi compagni Rufino e Angelo, annunciati l’11 agosto 1246 con la lettera scritta dai tre socii al ministro generale Crescenzio da Jesi. Fiumi d’inchiostro sono stati sparsi per individuare i documenti che accompagnarono la lettera. Certo è che quel nucleo di documenti, cresciuti nel tempo sino alla morte di Leone nel 1271, ispirarono e alimentarono scritti diversi.

Nel recupero della memoria non mancarono le oscillazioni: dall’«amnesia forzata», espressa nella decisione del capitolo generale di Parigi del 1266 di distruggere le leggende scritte su Francesco prima di Bonaventura, si passò a quella diametralmente opposta del capitolo generale di Padova del 1276. La volontà di salvare quanto rischiava di scomparire, in primo luogo il fascicolo inviato dai tre compagni nel 1246, pur senza compromettere il prestigio delle leggende bonaventuriane, intersecò tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento le sempre più gravi tensioni fra Comunità e Spirituali.

Lungo il percorso Dalarun pone continuamente in relazione l’esistenza dei testi e dei manoscritti con le vicende dell’Ordine. Dopo il 1239 il nome di frate Elia viene taciuto oppure eraso. Dopo il 1266 le letture tratte dalle leggende pre-bonaventuriane sono eliminate o rese inutilizzabili (singolare e impressionante il caso del manoscritto vaticano Reg. lat. 1738). Perché nel tempo che passa la memoria si trasforma e la vita dei Minori, con le sue fatiche e contraddizioni, entra e condiziona la rilettura dell’esistenza del fondatore. Motivata anche da esigenze liturgiche. La proliferazione delle leggende si spiega anche con la necessità di disporre di brani per le letture dell’ufficio che dopo il 1244, con l’introduzione dell’ottava, si moltiplicano. Sono questi brani a plasmare, con forza unificante e determinante, l’identità francescana. La rigorosa analisi dei manoscritti può dare molte risposte e risolvere annosi problemi. Si può, per esempio, trascurare il fatto che la Legenda trium sociorum, forse opera del solo Rufino, si accompagni sempre, nella tradizione manoscritta, alla lettera di Greccio del 1246?

In Corpus franciscanum non vi sono soltanto una perfetta sintesi e una chiara spiegazione dello status quaestionis relativo alle fonti accanto a un’accattivante presentazione dei loro testimoni manoscritti. Nelle pagine del volume le fini analisi dei testi, come quelle sul Cantico di frate Sole nel quale il «semialfabeta» funzionale, scarso latinista, diventa il primo grande autore di una letteratura del futuro, si incrociano con considerazioni che colpiscono e fanno riflettere: sull’itineranza francescana come riflesso della «perichoresis», della «circumcessio» trinitaria; sull’ecclesiologia di Francesco, fondata sui sacramenti e non viceversa, per cui la sua fedeltà alla Chiesa di Roma, al di là delle indubbie tensioni, era per lui questione di vita o di morte, come condizione per l’assunzione di un alimento vitale; sul servizio materno come unica forma possibile di governo nell’Ordine dei frati Minori. Nel quale «il movimento è più importante della stabilità», così come la «virtù primaria» di Francesco è quella di «sconcertare».

Alla fine del viaggio, dalla «carne» degli uomini che lo hanno seguito, ci si riavvicina – ed è forse quanto più conta – alla «carne» stessa di Francesco, alla sua concretezza reale: il corpus franciscanum ruota tutto intorno al corpus Francisci. Poche ricostruzioni riescono ad avvincere e a coinvolgere, come il Corpus franciscanum di Dalarun. Perché le reliquie delle scritture riconducono sempre all’uomo che fu Francesco e agli uomini che decisero di seguirlo. Dalarun è consapevole che «nessun percorso di lettura può pretendere di esaurire la ricchezza di questa eredità». La singolare mescolanza della «cultura variegata» di Francesco − nella quale interagiscono tecnica mercantile, sfumature cortesi, ideologia cavalleresca, ruminatio del breviario, ispirazione del vangelo e conoscenza delle norme monastiche e papali − non spiega tutto.

L’uomo è al tempo stesso semplice e complesso, dalle molte sfaccettature. Ha ragione Dalarun quando afferma che la «questione francescana» è, in fin dei conti, la «questione di Francesco». Così l’itinerario nei «meandri delle fonti francescane» al suo termine ci riporta al mistero di Francesco, alla celebre domanda di frate Masseo, ricordata in un passo degli Actus beati Francisci, ripresa nei Fioretti e citata da Dalarun nell’epilogo. Perché il mondo si interessa tanto di Francesco, che non era bello, non era colto, non era nobile? La risposta di Francesco rimanda al mistero di Colui che, senza motivi umani, lo ha chiamato. E alla fine zittisce tutti.

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