domenica 25 settembre 2022
Una nuova traduzione commentata ci proietta nell’isola del XII secolo, dove la società si è ribaltata: i normanni cristiani sono i padroni e i fedeli all’islam ridotti in servitù
Il duomo normanno di Palermo

Il duomo normanno di Palermo - Wiki Commons

COMMENTA E CONDIVIDI

Viaggio in Sicilia di Ibn Jubayr (Abu l-Husayn Muhammad ibn Ahmad al-Kinani, Valencia, 1145 - Alessandria d’Egitto, 1217), non è un semplice libro di viaggi. È molto di più, sia per la sua qualità, che inaugura il modello della Rihla, sia per la ricchezza della cura e del commento di Giovanna Calasso che ci fa compiere un tuffo profondo nell’insondabile storia della cultura, offrendone una traduzione nuova e impeccabile (Adelphi, pagine 144, euro 13,00). Parte finale dell’ampia “Relazione delle peripezie che sopraggiungono nei viaggi”, che Ibn Jubayr compose in forma di diario, quando compì il suo primo pellegrinaggio alla Mecca, partendo da Granada e passando in Egitto, Arabia, Mesopotamia, Siria, Palestina, dal 3 febbraio 1183 al 25 aprile 1185, è una miniera di informazioni sulla condizione dei musulmani in Sicilia sotto i normanni. Ibn Jubayr era un letterato e poeta arabo andaluso, di nobile stirpe, già segretario del governatore di Ceuta, e poi di Granada. Secondo la tradizione, avrebbe affrontato il pellegrinaggio per espiare la colpa d’aver bevuto sette coppe di vino, o per togliersi dal vincolo col suo superiore, che gli aveva imposto la trasgressione, pur ricompensandolo con altrettante coppe di dinari. A trentotto anni si era imbarcato a Ceuta con un compagno, su una nave genovese diretta ad Alessandria – genovesi e pisani erano dominatori del Mediterraneo, non più gli arabi, espansi sulla terraferma. I berberi Almohadi, di cui Ibn Jubayr era suddito, dominavano l’Occidente islamico, nell’Africa settentrionale dal Marocco ai confini della Libia e sulla penisola iberica. Compiuti i riti alla Mecca, dove soggiorna per otto mesi, Ibn Jubayr riparte per il ritorno dal porto di San Giovanni d’Acri, sempre su nave genovese.

È il 6 ottobre 1184, gli spazi sono rigorosamente separati tra loro e i pellegrini cristiani, che tornano da Gerusalemme. Ma il vento di levante, che spira solo in autunno e primavera, non soffia, e così, tra innumerevoli vicissitudini la Sicilia sarà raggiunta nel naufragio davanti a Messina, la notte del 3 dicembre, nel mese del Ramadan. Ibn Jubayr, che mai perde occasione di sottolineare la diversità dai cristiani, e sempre punteggia di citazioni coraniche, eulogie, invocazioni, formule devozionali il suo calendario di mesi, giorni, lune nuove, è un poeta metronomo che applica il culto religioso con infinito scrupolo, aderendo al Tempo, come manifestazione di Dio e dell’Eterno. Mentre il sole sorge, e barche vengono in soccorso, lo stesso re di Sicilia Guglielmo sorveglia lo sbarco, e dà cento tarì della zecca ai musulmani che non possono pagare il traghetto. Ibn Jubayr, stupefatto, loda Dio, per la coincidenza che l’ha portato a Messina, ad allestire la flotta. Come osserva Giovanna Calasso, questa prima impressione positiva sul re verrà ridimensionata, fino a essere rovesciata. Ma ecco Messina, il primo sguardo sulla città privilegiata dal porto più meraviglioso, ritrovo di mercanti infedeli, ma avvolta dalla miscredenza, maleodorante, e piena di sporcizia come Acri. Quale dolore che l’isola più grande del Mediterraneo, la cui fertilità, figlia di al-Andalus, supera ogni descrizione, sia da duecento anni ormai perduta, sotto il dominio degli Altavilla. Ora i musulmani sono i loro servi, pagano tributi in rapporto rovesciato, rispetto ai cristiani, senza il rispetto di persona e beni, alla mercé di abusi ed espropri. Tuttavia pare che Guglielmo, questo mirabile sovrano trentenne che a Messina abita in un palazzo bianco come una colomba in riva al mare, questo normanno che ha assorbito tutti i musulmani nel suo corpo amministrativo in ogni grado – dai cuochi ai medici agli astrologi agli eunuchi di palazzo all’harem, lasciando che parlino la loro lingua – sia il massimo estimatore dell’Islam, come il nonno Ruggiero II, il più amato dei conciliatori. Soltanto l’incontro con un eunuco servitore del re, instilla qualche dubbio nella magnificenza dell’impressione: con il cuore spezzato, descrive la dissimulazione della fede nella schiavitù, il rimpianto dell’Islam.

Il 18 dicembre, dopo nove giorni di sosta, il poeta riparte verso Palermo in battello. Finalmente appare, abbagliante, la vera città ancora “araba”, con il palazzo reale stupefacente, circondato dai giardini dagli ampi viali, l’enorme sala del banchetto, la galleria che conduce alla chiesa: metropoli delle isole che riunisce opulenza e splendore, radiosa, colma di seduzioni, la bellezza incantevole come quella di Cordoba. Forse proprio questa bellezza sovrumana è insopportabile. La chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio, fondata nel 1143 da Giorgio di Antiochia, ministro di Ruggiero II, ossia la Martorana, che raccoglie mosaici mirabili, non stupisce per la loro bellezza nella luce policroma dei vetri dorati. L’oro abbaglia: una tentazione del “politeista” cristiano che dilapida oro, da cui ritrarsi. La spia di tentazione e gelosia, si palesa nella descrizione delle donne cristiane, alla messa di mezzanotte: antilopi e gazzelle che parlano in arabo, abbigliate come musulmane in vesti di seta splendidamente drappeggiate e ricamate d’oro, veli variopinti, calzature dorate, gioielli, tinture e profumi. Il culmine della reazione avviene a Trapani, poco prima del ritorno. C’è la notizia dell’usurpatore Andronico I Comneno al trono di Bisanzio. Racconto confuso, di cui si può raccogliere il senso profetico, verso la caduta, non ancora prossima, dell’impero bizantino. In effetti Guglielmo II approfitta senza successo dell’usurpazione di Andronico, appoggiando un giovane, Alessio, che pretende di essere l’erede Alessio II, assassinato da Andronico. Sempre a Trapani un alto funzionario, noto come Ibn al-Hajar, già colpito da disgrazia, poi riabilitato, riversa su Ibn Jubayr ogni rimpianto del governo arabo, in recriminazione di Guglielmo. Ma come potevano conciliarsi i potentati che scatenavano guerre? Guglielmo avrebbe tenuto a bada il Saladino dopo che questi riconquistò Gerusalemme nel 1187, e le Crociate non erano una immaginazione. Il viaggio di Ibn Jubayr non è meno avventuroso di quello della sua riscoperta, come mostra Giovanna Calasso. Dopo le truffe dell’abate Viella, degne di Cagliostro, e difficili recuperi italiani delle fonti arabe in Sicilia, Michele Amari si rifugiò a Parigi dal 1842. Lì fu compreso e aiutato, in particolare da un erudito, arabista e classicista: Adolphe Noël des Vergers, legato con il suocero Ambroise Firmin-Didot alle maggiori imprese culturali ed editoriali, finanziate dal governo francese, erede dello spirito napoleonico. Entrato nel 1830 nella Société de Géographie, di cui diventa segretario, des Vergers pubblica da allora importanti testi d’arabistica, dedicati inizialmente alle fonti arabo-normanne. Amari dà la versione francese di Ibn Jubayr nel “Journal Asiatique” 1845 e 1846, rinviando al diploma arabo pubblicato da des Vergers nel 1841, e cita sempre i suoi lavori, nelle grandi opere successive. Nonostante le profonde differenze – des Vergers è più ottimista sulle coesioni delle culture – in entrambi la passione patriottica corrisponde alla ricerca di fondamenti civili. Amari sarà il primo ministro dell’Istruzione Pubblica nell’Italia unita.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: