giovedì 11 febbraio 2021
Un saggio di Ohler indaga le diverse esperienze del viaggio e i grandi itinerari del sacro. Le figure principali dell’“homo viator”, il mercante e il pellegrino, non erano poi così distanti tra loro
Pellegrinaggio a Canterbury, miniatura tratta dal manoscritto “I racconti di Canterbury” (XV secolo)

Pellegrinaggio a Canterbury, miniatura tratta dal manoscritto “I racconti di Canterbury” (XV secolo) - Gilardi

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Il viaggiatore del mediovo apparteneva a due categorie fondamentali: il mercante e il pellegrino. In fondo, si trattava di tipi non del tutto divergenti. Antropologicamente, tra il mercante e il pellegrino non c’era, poi, quella differenza che a prima vista si potrebbe immaginare. Con i proventi dei suoi viaggi, il mercante spesso finanziava, anche a sconto dei suoi peccati, belle chiese, grandi affreschi, splendide vetrate. Mentre i pellegrini, da parte loro, molto spesso mercificavano gli esiti del loro pellegrinaggio, magari con un traffico di reliquie, o semplicemente con il giro di affari che intorno alla loro peregrinatio si poteva creare. I regni sorti sulle rovine del mondo romano in Occidente mantennero a lungo una relativamente intensa attività di scambi e di commerci come racconta il volume I viaggi nel Medioevo di Norbert Ohler (Odoya, pagine 448, euro 24,00).

I greco- siriani, in grado di occupare vaste porzioni urbane nella grande area portuale mediterranea, restarono a lungo gli operatori commerciali delle numerose città della Gallia meridionale e della Spagna visigotica, zone in cui dovettero mantenersi le fiere (nundinae) ed i mercati che la legislazione tardoantica testimonia. Le città portuali nelle quali più a lungo si mantenne la legislazione romana, con le sue precise prescrizioni circa le dogane ed i magazzini, conservano ancora per il VII secolo le tracce dell’esistenza di thelonarii (mercanti locali), a riprova della continuità di una prassi che aveva visto cooperare nell’attività mercantile individui sia stranieri sia indigeni, i quali poi distribuivano le merci nell’interno. I quartieri commerciali che avevano caratterizzato i principali centri mercantili del mondo romano-bizantino, sopravvissero forse più a lungo di quanto non si sia abituati a pensare, e Gregorio di Tours ci informa dell’esistenza di una simile area specializzata anche nella Parigi merovingia. È del resto in questo stesso contesto che si incontrano non solo le prime fiere, ma anche la nuova funzione cui esse assolsero nel quadro economico del tempo. La grande fiera di Saint Denis istituita da Dagoberto I ebbe come scopo quello di costituire un importante cespite di entrate per l’abbazia omonima, che usufruiva per concessione regia di tutte le gabelle e le entrate che in quei giorni si raccoglievano. Nel-l’VIII secolo Childeberto III ricordava il rilievo internazionale assunto dalla fiera, verso la quale confluivano mercanti sassoni e di altre nazioni.

Questo tipo di protezione regia accordato a grandi abbazie prossime ai centri commerciali nel giorno in cui ricorreva la festa del loro santo eponimo o la commemorazione liturgica della fondazione, pur se più evidente nelle epoche successive, testimonia degli adeguamenti strutturali del-l’attività commerciale ai nuovi centri di aggregazione del potere territoriale, confermando l’esistenza di una molteplicità di livelli: da quelli prettamente locali - legati allo smercio delle eccedenze di una proprietà signorile o di un villaggio - fino a quelli stimolati dalla domanda di centri urbani maggiori, capaci di catalizzare un’offerta mercantile più vasta. Occasionale o periodica, come nel caso delle fiere, la mobilità mercantile sopravvisse fino alla stagione della rinascenza urbana dell’XI secolo. A partire dall’XI-XII secolo, per favorire gli scambi, si crearono in tutta Europa mercati periodici o stagionali che si tenevano in varie città di solito nei giorni consacrati alla festa dei santi patroni locali (e per questo, da feria, 'festa', prendevano il nome di fiere).

Le più famose avevano luogo in sei città della regione franco-orientale della Champagne, dove ogni centro ospitava il mercato per la durata di sei mesi. in questo modo, si aveva almeno una grande fiera aperta ogni giorno dell’anno. Il viaggiatore medievale per eccellenza, però, era il pellegrino. Il mondo cristiano ha espresso nella concezione dell’homo viator, del viaggiatore, il simbolo della ricerca spirituale che nondimeno si esprime talvolta anche nei termini d’un reale ed effettivo spostamento da un luogo all’altro. Il termine 'pellegrino' poi, deriva dal verbo latino peragere che è quanto mai ricco di significati: da quello di 'muoversi con inquietudine, senza tregua' a quello di 'condurre a termine' (e quindi 'perfezionare', ma anche 'morire'). Il peregrinus non è semplicemente l’hospes, lo 'straniero'. La parola peregrinus esprime l’estraneità e al tempo stesso l’estraneamento e lo spaesamento. Il pellegrino è tale in quanto straniero nella terra nella quale giunge; ma al tempo stesso l’espressione che lo qualifica è ambigua al punto tale da poter significare il contrario: in realtà egli potrebb’essere straniero nella sua terra d’origine, e la sua vera patria essere appunto la sua mèta. Il cristiano è cittadino del cielo, la sua vita è un pellegrinaggio perché egli parte dall’esilio e desidera tornare in patria.

Ma il viaggio, più che spostamento da un luogo all’altro della terra, può significare un mutamento di stato e di qualità: un passaggio dal mondo consueto a una dimensione 'altra', differente, vale a dire 'sacra' - il Sacro si può intendere come il 'totalmente altro' rispetto alla quotidianità umana - oppure comunque 'santa', in contatto cioè col divino e relativo a esso. Le grandi mète del pellegrinaggio medievale erano Santiago de Compostela in Galizia (Spagna), Roma, Gerusalemme; esse erano alternate a mète secondarie, a pellegrinaggi meno importanti o 'minori', soprattutto legati alla devozione dell’arcangelo Michele (Mont-saint-Michel in Normandia, la Sacra di San Michele in Val di Susa, Monte Gargano in Puglia) o a quella per la Madonna (Le Puy, Chartres, Rocamadour). I pellegrini erano protetti dalla Chiesa, che colpiva con la scomunica chi li avesse offesi; erano sovente dei penitenti, riconoscibili per la sacca e il bastone da viaggio; e come segno della loro penitenza e della santità della loro mèta portavano indosso - sugli abiti e sui copricapi - dei distintivi speciali. I pellegrini - fra i quali vi erano anche vecchi, bambini, donne - si affiancavano a girovaghi, mercanti ambulanti, contadini in cerca di nuove terre che fra X e XI secolo si muovevano con maggiore frequenza. Inoltre, nel corso del-l’XI secolo la grande Abbazia di Cluny si era fatta promotrice dei pellegrinaggi a Santiago de Compostela in Galizia, all’estremità di nordovest della penisola iberica. Esso sarebbe servito infatti, si pensava, a propagandare le guerre cristiane di riconquista contro i musulmani di Spagna.

Infine v’era Gerusalemme: controllata dagli abbasidi, ma visitata da un crescente numero di pellegrini occidentali. Nell’ambito propriamente ecclesiale, una certa diffidenza nei confronti dei pellegrinaggi rimase costantemente: anche perché l’organizzazione ecclesiastica era rigorosamente territoriale, e gli ordini regolari erano organizzati, dal canto loro, sulla base della stabilitas loci, che impediva al monaco di mutare monastero rispetto a quello nel quale era entrato nell’ordine. Tuttavia si finì con l’ammettere l’esperienza del pellegrinaggio come fatto centrale nella vita della Ecclesia, sebbene ordinato dalla Chiesa, sancito da un apposito voto e corredato dalle relative indulgenze spirituali. In questo modo la Chiesa provvide a inserirsi, disciplinandolo, nel vasto movimento che animava le strade dell’XI secolo.

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