domenica 17 gennaio 2010
COMMENTA E CONDIVIDI
Dopo la penultima svolta della mia vita – quella della vecchiaia – mi sono scelto come compagno di strada Giobbe. O invece è lui che un po’ si china verso di me, generosamente: per vedere ciò che mi capita; e per provare a insegnarmi qualcosa. Così lo ascolto e lo riascolto; prestando orecchio anche a ciò che si dice di lui. Da ultimo, per esempio, ho sentito dare di Giobbe definizioni in termini spicci di «poesia biblica» e d’una troppo facile «speranza». Sono definizioni tutt’altro che inconsuete: però a me suscitano perplessità, col bisogno di due messe a punto.La prima: proprio non mi viene da considerare le sacre scritture sotto la specie della poesia. Sarà perché – da non poco tempo – la poesia mi interessa poco. Che cosa mi interessa, allora, in questi miei tardi anni? Mi interessa la vita: la verità della vita. A me interessa la vita; e anzi più che interessarmi mi prende sempre più alla gola: per questo ogni giorno mi sforzo di studiare un po’, da volenteroso dilettante, le sacre scritture. Non per trarne emozioni estetiche, ma per sapere: per sapere che fare (poieo); per sapere che fare della mia vita. Le sacre scritture: che costituiscono appunto la Bibbia: il Libro dei libri, il Libro diverso da tutti i libri; la più fondata – o se si vuole la meno infondata, comunque l’unica – ipotesi di salvezza. Altro che poesia e non poesia. E proprio per questo, perché la vita mi prende sempre più alla gola, leggo e rileggo Giobbe: torno inevitabilmente a Giobbe. Però di Giobbe mi sollecita (ci sollecita credo, generazione dopo generazione) più di tutto la condizione al limite: la scandalosa contraddizione. E fra questa contraddizione e l’approdo alla speranza la distanza è smisurata. Smisurata: dobbiamo ammetterlo, se non vogliamo che il discorso risuoni solo consolatorio.È la seconda messa a punto. Ma qual è la condizione al limite di Giobbe? Qual è la contraddizione addirittura scandalosa che lo stringe e fa apparire lontana e aleatoria ogni speranza? È la contraddizione fra la sua innocenza e la sua sventura: innocenza senza mende, da un lato, ed estesa sventura, dall’altro – perdita d’ogni bene: figli, patrimonio, salute. Perdita irreparabile d’ogni bene, senza restituzioni e per sempre: perché Giobbe crede che con la morte tutto finisca. L’orizzonte di Giobbe, del suo tempo, della sua cultura, è solo quello della vita terrena: una sola breve vita dopo la quale non ci sono compensi e risarcimenti: c’è solo l’informe Senza-vita e Senza-senso dello Sheol. Perciò la giustizia di Dio si manifesta, Giobbe crede, in premi di gioia ai buoni – agli innocenti – e in punizioni di dolore ai cattivi – ai reprobi – durante le loro esistenze mortali.Così la parabola di Giobbe ci pone come forse nessun’altra la questione più vera di tutte. Forse in ogni uomo resiste un fondo d’innocenza che alla fine getta un’ombra d’ingiustizia sul dolore che lo colpisce. Ma gli innocenti – gli assolutamente innocenti – puniti sono legioni: legioni di legioni; ben più numerosi che nella più rosea delle previsioni, delle ossessioni sadiane.Per esempio: ogni tre secondi nel mondo muore di stenti, o di violenze peggiori, un bambino sotto i cinque anni. Un bambino ogni tre secondi: proviamo a contare. 1, 2, 3: via un bambino; 1, 2, 3: via un altro bambino… 20 in un minuto, 1.200 in un’ora, 36.000 in un mese… Ed è solo un esempio capace di evidenza: troppe altre sono state, sono e saranno le vittime dell’ingiustizia e della disgrazia; per le più varie cause e colpe – talvolta, o spesso, senza colpa di nessuno.Torniamo a quei bambini: muoiono s’intende tra le sofferenze, tra le sofferenze loro e, s’intende, dei loro genitori e parenti; muoiono sconosciuti a tutti – o quasi; rimpianti quasi da nessuno. Sono abbiamo detto miriadi: un tremendo mucchio, una folla piangente e dolorosa. Però ne basterebbe uno solo, una bambina o un bambino così violentato, a porre l’obiezione più forte di tutte. Ne basterebbe uno: perché la giustizia è giustizia dell’altro, prima che nostra; è qualità prima che quantità. E l’obiezione di questo uno (o una) è radicale: religiosa. È un’irresistibile confutazione delle nostre vite e di ogni vita – della vita: «Perché a me capita questo?» «Dov’è la giustizia?» Basta uno solo di loro a dire – e a provare – che sulla terra non c’è giustizia.Non c’è giustizia; e non c’è senso possibile, se non si trova la giustizia e il senso di tanta morte e di tanta sofferenza anche di un solo essere umano. Non c’è giustizia e ha ragione Macbeth: la vita è insensata. Ricordiamo l’ultimo monologo di Macbeth, nella tragedia di Shakespeare? «…La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla».«Una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla»: sì, l’alternativa è questa. O Dio esiste, un Dio riparatore, giusto e misericordioso, che per amore – non può essere che per amore – raccoglie fra le sue braccia quei bambini, facendo che le loro vite non siano finite così, ma abbiano un seguito di risarcimento e di gioia; oppure la condizione che siamo chiamati a vivere è una generale condizione di iniquità e insensatezza. Oppure la vita, la nostra vita, è soltanto una lotteria; e allora guai a chi tira il numero sbagliato: peggio per chi nasce in Africa, peggio per chi nasce povero, peggio per chi si trova esposto all’arbitrio, alla malattia o ad altra devastazione.Giobbe lo sa, lo ha suo malgrado imparato. E non deve ingannarci l’happy end, il lieto fine della sua storia: la sua terrena resurrezione dalla cenere, con il recupero del patrimonio e della salute, la nascita di nuovi figli. Lieto fine troppo precario ed eventuale: sappiamo anche noi che troppe altre storie umane non vanno a finire così; e invece si spengono – sconfortate, derelitte – nella cenere.Giobbe lo sa, lo ha dolorosamente imparato; e non accetta le logiche di una retribuzione temporale che operi solo durante l’esistenza terrena. Non accetta che ogni premio di bene, ogni punizione di male, siano quelli che si ricevono qui – soltanto qui: consumandosi tutti qui e consumandoci del tutto qui. Giobbe non accetta che dopo non ci sia altro, non ci sia più altro per gli umani; che la vita, ogni vita, alla fine si perda, si cancelli così, nell’ingiustizia, nello strazio dell’innocenza.Giobbe non lo accetta. Contro il suo tempo e contro se stesso: contro le credenze del suo tempo, le culture e le fedi del suo tempo, e contro il suo stesso credere, la sua stessa cultura. Giobbe esige un vendicatore delle sue sofferenze e della sua vita. Il Vendicatore: «Io so che il mio Vendicatore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere. Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, e i miei occhi lo contempleranno non da straniero».«Il mio Vendicatore è vivo»: «vendicatore» (o «difensore») dicono le traduzioni moderne. Invece san Girolamo nella volgata traduce «Redentore»; con una anticipazione indebita, giacché l’espressione ebraica (go’el) si riferisce solo a una figura processuale allora esistente, di tutore istituzionale delle ragioni della parte debole e offesa.Eppure... «Senza la mia carne vedrò Dio»: la suggestione è intensa. Parrebbe l’asserzione d’una vita oltre la morte; per quanto gli interpreti di oggi avvertano che la credenza nello Sheol non lo permette. Eppure nella lettera – forse anche nello spirito del testo – sembra di cogliere una sorta di premonizione della resurrezione, alla quale il tempo di Giobbe non credeva. Sembra di cogliere una premonizione spes contra spem: la speranza di ciò che non è dato sperare.È questa la difficile speranza di Giobbe? La risposta affermativa adesso non è scontata. Come non è scontata – anzi è esclusa – per le cognizioni e il tempo di Giobbe. Ma se invece proprio questa è la sua speranza, certo non è gratuita: anzi affonda le radici in una lunghissima ostinazione, in una faticosissima perseveranza che continua a nutrirla. Ed è la lezione ultima e più duratura di Giobbe: la contraddizione tra innocenza e sventura non si conclude in se stessa. Giobbe non si rassegna, non accetta questa contraddizione. E il suo tenace, paziente, mai vinto, infinito non rassegnarsi e non accettarla è la sua vera storia. Ed è il cuore d’ogni nostra possibile storia, se non vogliamo che tutta la nostra vita sia una non-storia. Giobbe non smette di chiedere perché, di cercare il senso di ciò che gli capita e di ciò che capita. Giobbe non smette di volere la verità della propria vita: dunque di ogni vita, della vita: di chiederne conto a Dio. E questa pressante, insistita, mai conclusa richiesta, che è in sostanza una preghiera – talvolta l’unica preghiera possibile – è tutta la sua speranza. Tutta la nostra speranza. E la fede, la fede religiosa, dice – a chi della fede ha ricevuto il dono misterioso – che questa speranza prima o poi – sì: prima o poi – non verrà delusa.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: