mercoledì 3 gennaio 2024
Non solo letteratura, anche in politica, medicina e persino giustizia conta sempre più la “narrazione”. Che chiama in causa il rapporto dei lettori con verità e morale
I pericoli dello storytelling

I pericoli dello storytelling - Maia Habegger / Unsplash (cropped)

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Non c’è niente da fare, saper vincere è più difficile – molto più difficile – di saper perdere. Le storie, per esempio, hanno trionfato, questo è un problema. Istituzioni e aziende, piattaforme e influencer: tutti hanno una storia da raccontare, e tutti la raccontano nello stesso momento, in una costante simultaneità che assume i connotati di una competizione permanente. Anche in politica, a imporsi è il racconto migliore, la narrazione più convincente, la narrativa meglio strutturata. Già questo dei sinonimi sarebbe un indizio da indagare con attenzione, perché non sempre la sovrabbondanza di definizioni corrisponde alla perspicuità del concetto. E che cosa sia una vera storia, in fondo, oggi lo sappiamo con meno certezza rispetto a qualche tempo fa. Preferiamo accontentarci della rassicurante qualifica di “storia vera” (specie nell’ipnotica formula “tratto da”), senza scomodare le vecchie categorie di vero e verosimile. Di arnesi di questo tipo era solita servirsi la critica letteraria, ma noi siamo andati oltre. Noi – ci ripetiamo con la determinazione un po’ folle dell’autoconvinzione – siamo la storia che raccontiamo. Molto più spesso, siamo la storia che ci raccontiamo. Le storie hanno vinto, dunque. Ed è per questo che sono in pericolo.

L’allarme è stato lanciato da tempo, anche se in termini non sempre condivisibili. Tra le avvisaglie più precoci \\va annoverato il saggio pubblicato nell’ormai lontano 2008 dal francese Christian Salmon. Si intitolava semplicemente Storytelling, in Italia uscì da Fazi e sosteneva che, tramontato l’impero delle grandi narrazioni, la retorica delle piccole narrative rientrasse in una strategia globalizzante, ordita dal capitalismo angloamericano ai danni di ogni altra identità e tradizione culturale. Più di recente, è stato uno studioso statunitense, Jonathan Gottschall, a mostrare segni di parziale resipiscenza. A L’istinto di narrare del 2012, nel quale Gottschall spiegava «come le storie ci hanno reso umani», ha fatto seguito una decina di anni dopo Il lato oscuro delle storie (edito nel nostro Paese da Bollati Boringhieri, che ha in catalogo anche il libro precedente). Non che nel frattempo Gottschall abbia perso fiducia nel potere del racconto. Al contrario, ne è sempre più persuaso e proprio per questo invita a maneggiare le storie con prudenza perché, spiega, nessuna storia è mai innocente. Il medesimo concetto viene ora ribadito da uno dei massimi critici letterari contemporanei, lo statunitense Peter Brooks, in Sedotti dalle storie (traduzione di Giuseppe Episcopo, Carocci, pagine 144, euro 14,00), originale e autorevole ricognizione su quelli che nel sottotitolo vengono indicati come gli «usi e abusi della narrazione». Classe 1938, titolare di una carriera accademica culminata con l’insegnamento a Yale, Brooks è stato fra i più accesi sostenitori della «svolta narrativa » che, dalla metà dagli anni Ottanta, ha riconosciuto cittadinanza al racconto in ambiti altrimenti imprevedibili, come la medicina o la finanza.

Adesso, anziché trarre vanto dalla diffusione delle proprie teorie, Brooks preferisce condividere una serie di perplessità. Le possiamo riassumere nel dubbio supremo di chi si ritrovi a fare i conti con un successo di proporzioni abnor-mi: non è che, per caso, c’è stato un fraintendimento? Esattamente come è capitato a Gottschall, anche Brooks non ha cambiato idea. Il racconto è uno dispositivo formidabile per guardare la realtà, in quanto svolge una peculiare funzione cognitiva che ognuno di noi sperimenta come insostituibile nella propria quotidianità. Le storie sono entusiasmanti, indispensabili e, appunto, seducenti. Piacciono a tutti e nessuno perde occasione per magnificarne la potenza. «Non c’è nulla al mondo più forte di una buona storia», si legge nella citazione con cui Brooks apre il suo libro. La fonte non è costituita da un classico della letteratura, ma da una serie tv, e non da una serie tv qualsiasi. Parliamo dell’episodio conclusivo del Trono di spade, un epilogo che ha lasciato delusi molti estimatori della saga fantasy ispirata ai libri di George R.R. Martin. Con una certa malizia, gli sceneggiatori hanno individuato proprio questa collocazione accidentata (non presente nei romanzi, il finale era soggetto a contestazioni pressoché scontate) per rendere omaggio all’efficacia del racconto. Un riconoscimento significativo, poiché proviene dal contesto di quella cultura popolare che di storie si è sempre nutrita volentieri, anche quando gli intenditori suggerivano diete quasi del tutto prive di trama, intreccio e derivati.

Ancora una volta, però, l’equivoco è in agguato. Brooks lo dimostra analizzando uno dei più clamorosi bestseller dell’ultimo decennio, La ragazza del treno dell’inglese Paula Hawkins, nel quale i criteri del verosimile sono sbrigativamente contraddetti con l’unico obiettivo di ottenere un ulteriore effetto melodrammatico. In questione, spiega Brooks, non c’è il rispetto di una regola compositiva, ma la consapevolezza dei limiti entro i quali avviene lo scambio narrativo. Il fatto che ogni racconto sia «un atto comunicativo » non gli conferisce «alcun privilegio speciale», né lo «immunizza da usi non etici». Per cavarcela con un gioco di parole, potremmo dire che raccontare una storia non è un lasciapassare per raccontare storie. Più elegantemente, Brooks si richiama alla cruciale distinzione introdotta da Paul Ricoeur (ciascuno di noi è narratore e non autore della propria storia personale) e così sintetizza: «La nostra capacità di creare finzioni può essere fondamentale per la ricerca della verità in noi stessi e nel mondo, ma non la garantisce, né assicura la nostra stabilità mentale». Dove viene meno l’interpretazione, insomma, illusione e autoillusione sono sempre in agguato.

Brooks approfondisce il concetto attraverso numerosi esempi relativi alle sentenze pronunciate dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, mettendo in guardia dalla trappola del cosiddetto «originalismo», la dottrina secondo al quale il dettato della Costituzione americana andrebbe sempre inteso alla lettera e non potrebbe mai essere recepito alla luce dei mutamenti intervenuti nel tempo (il caso di scuola è quello del diritto a possedere armi da fuoco). Ai giuristi, suggerisce Brooks, andrebbe fornita un’adeguata formazione in materia di narratologia: in questo modo i cittadini sarebbero salvaguardati dalle insidie di un racconto che, presentandosi come esclusivo e sottraendosi all’esercizio dell’interpretazione, non può che sclerotizzarsi in una mitologia inappellabile e soverchiante. Contro la monocoltura di una conoscenza unicamente «strumentale», il sapere umanistico rivendica così una precisa funzione sociale e addirittura politica.

È quello che sostiene un altro influente critico d’oltreoceano, James Wood, in Come funziona la critica, il saggio che dà il titolo alla raccolta proposta da minimum fax (traduzione di Raffaella Vitangeli, pagine 364, euro 16,00). « Le storie – scrive Wood – sono combinazioni dinamiche di eccesso e delusione: sono deludenti perché devono finire, ma lo sono anche perché non possono finire del tutto». Tra un estremo e l’altro entra in gioco la responsabilità del lettore, l’elemento fondamentale grazie al quale la letteratura – e con la letteratura ogni forma di comunicazione – smette di essere mera pratica e si afferma come scienza morale.

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