sabato 3 gennaio 2015
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Nel cimitero di Aliano, in Lucania, la tomba di Carlo Levi è un pavimento di mattoni rossi, nuda nella sua disadorna verità, ma gode di un privilegio: il muretto di cinta, in corrispondenza, è volutamente squarciato per consentire la vista sul panorama. Sotto si spalanca la Fossa del Bersagliere: uno strapiombo giallo e calcareo, oltre cui degrada la valle del fiume Agri. È l’unico trattamento d’onore per un ospite così importante, una specie di regalo che in tempi di feste natalizie (Levi morì a Roma il 4 gennaio di quarant’anni fa, ma chiese di essere seppellito nella terra del confino) i vivi gli hanno voluto consegnare, quasi a restituire quel che la malattia del diabete gli aveva sottratto: l’uso degli occhi, destino davvero beffardo per un pittore.In questo involontario risarcimento credo si nasconda una simbolica chiave di lettura. Levi è collocato nella posizione di chi è invitato a scrutare il palcoscenico di alberi e calanchi, obbedendo a quel che scrive in uno dei rarissimi versi, disseminati dentro una pagina di Quaderno a cancelli (1979), il libro postumo che raccoglie le scritture della cecità: «Esiliato su un monte / rituale e feroce / guardo con occhi aperti un mondo antico». È esattamente questa la fotografia che inquadra il lembo di terra alla cui eternità Levi presta attenzione con occhi non più chiusi. Io penso che da lassù abbia visto molte cose, a cominciare dalle antiche divinità pagane che abitavano in quei luoghi sia al tempo del confino, nel 1935, quando Cristo si manteneva dalle parti di Eboli, dunque in un territorio estraneo alla Lucania, sia negli anni successivi, quando il passaggio della Storia (la guerra, gli alleati, le lotte per il latifondo) ha mutato poco il destino degli individui nati in quelle latitudini.Il paradigma della scrittura di Levi sta a crocevia di vicende oggi così lontane, fra una remota visione gobettiana che sarebbe sfociata in marxismo, e l’approdo nel Partito d’Azione, al tempo della Costituente, in cui il suo nome è diventato bandiera di un meridionalismo carico di epica e di pietas. Poi però Cristo si è messo in marcia, si è arrampicato a piedi o in groppa a un asino sui tornanti dell’Appennino e la Storia mostrava segni di novità anche là dove Levi stesso pensava non dovessero mai giungere. Le antiche divinità pagane sono fuggite via, gli ex contadini si sono dati un destino operaio emigrando verso le fabbriche del Nord Italia o del Nord Europa e adesso, nel nuovo millennio, si è imposta un’idea di moderno che ha assunto il volto inedito delle torri metalliche, delle lingue di fuoco, delle gigantesche trivelle. La Lucania è una palafitta che affonda dentro un enorme giacimento di petrolio. Tutto ciò sembra contraddire la dimensione di storia assente che Levi aveva fissato nel Cristo si è fermato a Eboli (1945) ed è anche la conferma di quanto sia necessario lasciarsi alle spalle le categorie con cui il Sud era stato interpretato alla maniera leviana. Per decenni, infatti, si è pensato che l’opera di Levi cogliesse in profondità l’antropologia immobile dell’entroterra appenninico, che nelle sue fascinose parole si nascondesse il segreto per cui le regioni meridionali si mantenessero davvero fuori dalle rotte del progresso e il mondo contadino non avesse alcuna chance per emergere se non quella della rivolta popolare, così come avrebbe cantato la poesia di Rocco Scotellaro, l’erede primogenito. Ciò non è avvenuto e l’insuccesso politico, nonostante la riforma agraria, ha trascinato con sé un’intera storiografia che puntava tutto sul riscatto di chi lavorava la terra. Ne sarebbe scaturito un errore di prospettiva che a lungo avrebbe alimentato una letteratura prigioniera di una fascinazione prestorica, fedele a un linguaggio che continuava a scrutare il Mezzogiorno secondo gli stereotipi del magico, del folklorico, del tempo immobile.Il problema è che molta della narrativa meridionale ancora oggi respira quest’aria consumata e si attarda nella dimensione del racconto-denuncia, anziché spingersi in quella del racconto-utopia. Eppure sarebbe bastato volgere lo sguardo verso altri ceti sociali, per esempio la classe degli artigiani: qualcosa non del tutto accostabile alla borghesia che altrove aveva contribuito ad accelerare i processi storici, ma ugualmente dotata di ambizioni da porsi un gradino sopra la condizione dei braccianti. Difficile ipotizzare verso quale traiettoria si sarebbe incamminata la letteratura del Sud se avesse fondato ogni speranza sulla visione di chi lavora in bottega anziché nei campi di grano. Difficile stabilire quanto alternativo sarebbe stato il dibattito sulla questione meridionale, sviluppato in termini post-leviani. Tuttavia occorre riconoscere ciò che rimane ancora vivo della lezione pronunciata dalla voce di quest’uomo che si è fatto padre di una geografia d’esilio: la capacità di elevare al rango di topos letterario un mondo sommerso. Prima del Cristo, infatti, la Lucania non era che un’occasione di poesia individuale. Dopo sarebbe diventata un orizzonte di narrazioni fertili e contraddittorie, in cui la condizione infernale facilmente conviveva con l’annuncio del paradiso. È stato Levi a compiere il miracolo e paradossalmente, ragionando proprio di un Cristo assente, ne è stato il suo precursore, colui che si è assunto il compito di invocarne la presenza. Chiediamoci come avrebbe reagito di fronte ai pozzi di estrazione che oggi puntellano le dune dei calanchi intorno ad Aliano e paiono draghi nelle notti stellate. Credo con lo sguardo degli antenati che vedono un mondo modificarsi rapidamente sotto i loro occhi, assistono a un presente che li spaventa e li disorienta, in cui forse nemmeno più riconoscersi, ma non distolgono lo sguardo, non smettono di pensare che, anche grazie alla loro avventura, si è infranto il sonno profondo della non-storia.
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